Gender Pay Gap: Quando la politica retributiva non funziona
Rispetto alla questione della parità di genere, in particolare nel campo delle opportunità economiche e del mercato del lavoro, l’Italia sconta un ritardo ormai cronicizzato.
Secondo il World Economic Forum, infatti, l’Italia (indice = 0,707), dopo la Grecia, è la peggiore per equità di genere nell’Europa occidentale (indice = 0,767), ma risulta anche fra gli stati meno performanti in tutta l’area OECD per quanto riguarda il livello di partecipazione economica delle donne (0,595). E, come se questo non bastasse, abbiamo pure un poco decoroso 125° posto su 153 stati membri dell’OECD per quanto concerne l’indicatore della parità salariale (indice = 0,529).
Da quest’ultimo punto di vista, come evidenziato nel nostro GENDER GAP REPORT 2020 , il gap retributivo fra uomini e donne per un impiego a tempo pieno è dell’11,1%, pari a oltre 3.000 euro lordi annui: di fatto, a parità di altre condizioni, le donne perdono circa un mese e mezzo di salario. Una differenza che arriva a superare il 20% se si tiene in considerazione il numero di ore effettivamente lavorate.
Da notare, per altro, come evidenziato nella tabella sottostante, che il delta è esteso in modo sostanzialmente uniforme a tutte le qualifiche contrattuali.
Le ragioni di questa situazione molto negativa possono essere sintetizzate in tre macro-fattori:
- le donne partecipano meno al mercato del lavoro;
- le donne hanno maggiori difficoltà ad accedere alle posizioni meglio remunerate (dirigenti e quadri);
- le donne a parità di lavoro hanno comunque retribuzioni più basse degli uomini.
Si è ampiamente discusso delle ragioni di questa penalizzazione. Ed il dibattito si è concentrato su due aspetti: in primo luogo, il basso livello di partecipazione e le difficoltà nello sviluppo di carriera sono stati associati principalmente al fatto che esiste un evidente squilibrio in tema di cure familiari, che gravano in modo assolutamente preponderante sulle spalle delle donne e non solo in caso di maternità; in secondo luogo, si è messo in evidenza come l’accesso ai ruoli più professionalizzati e manageriali sia reso più complicato per le donne dal tipo di percorso d’istruzione. In sintesi, le ragazze sceglierebbero studi (umanistici piuttosto che STEM) che sarebbero meno in linea con le effettive esigenze del mercato del lavoro e questo finirebbe per penalizzarle.
Simili analisi tendono a concentrarsi sulla spiegazione della discriminazione come il prodotto di una cultura maschilista di cui la società italiana è impregnata e che viene rafforzata da un impianto normativo insufficiente. Si tratta di una diagnosi corretta, anzi inopinabile. E tuttavia si tratta anche di una diagnosi che rischia di assolvere troppo velocemente un imputato importante: i datori di lavoro.
C’è, infatti, un ragionamento sottile ma subdolo in un simile modo di vedere le cose, che potremmo riassumere così: dato che per motivi culturali l’offerta di lavoratrici con istruzione, qualifiche professionali e effettiva possibilità di concentrarsi sulla carriera, è scarsa, allora le aziende sono giocoforza costrette a perpetrare, per motivi di efficacia organizzativa, una situazione di squilibrio di genere che tuttavia non dipende da loro. In altre parole, limitandosi all’interpretazione culturale del gender gap, c’è il pericolo di porre la sua soluzione fuori dalle aziende, dando loro un alibi di ferro.
I progressi limitati o nulli, che anche noi abbiamo rilevato anno dopo anno con il nostro Osservatorio, si possono spiegare in buona parte anche da questo punto di vista. In proposito, le vicende della Legge Golfo-Mosca sulle quote rosa nelle società quotate in Borsa Italiana sono un esempio molto esplicativo. Quella che doveva essere una norma pensata come un come volano per tutto il mercato del lavoro, che avrebbe accelerato il percorso verso la parità, non lo è stata nei termini auspicati: i risultati raggiunti nelle società quotate sono stati quelli minimi previsti dalla legge, il livello di parità di genere negli ultimi 10 anni nel complesso delle imprese italiane è rimasto più o meno lo stesso e, alla fine, il legislatore si è visto costretto ad una proroga di quello che, in origine, doveva essere un provvedimento provvisorio.
Questa situazione rivela che l’arretratezza culturale si è combinata, in Italia più che altrove, con una scarsa capacità delle imprese di comprendere come l’equità di genere sia non soltanto un tema di giustizia e di responsabilità sociale, ma anche di performance. Non si colgono, cioè, per mancanza di consapevolezza, le opportunità insite nel colmare il gap fra uomini e donne. Eppure, negli anni si sono moltiplicati studi e analisi che dimostrano come le imprese in grado di garantire una maggiore partecipazione ed un coinvolgimento diretto delle donne, soprattutto a livello di governance e strategia, abbiano performance migliori. Per esempio, in un noto paper del 2018, McKinsey ha messo in evidenza una correlazione positiva fra valorizzazione delle differenze di genere, profittabilità e creazione di valore: maggiore la presenza femminile nel C-Level aziendale e maggiore la percentuale di donne in ruoli manageriali di linea piuttosto che di staff, maggiori le performance rispetto ai competitors[1]. Perché questa correlazione positiva? Le motivazioni sono state individuate nel fatto che, grazie alla diversità, queste aziende sono più capaci di attrarre e trattenere i talenti, di migliorare il customer focus e la fidelizzazione dei clienti, di essere più innovative, di raggiungere alti livelli di soddisfazione del personale, di prendere decisioni efficaci, di garantire livelli di delega adeguati e di ridurre considerevolmente il rischio.[2].
Oltre a questo aspetto non si può non considerare, poi, come il gender gap, sotto il profilo strettamente retributivo, sia in ultima istanza l’esito di una reward policy che non funziona.
Lo scopo di una politica retributiva è quello, in estrema sintesi, di garantire equità e meritocrazia all’interno, in funzione di scelte di posizionamento competitivo rispetto al mercato. Il criterio guida è quello di coniugare “valore del lavoro” (il peso organizzativo del ruolo) e “valore della persona” (il valore dell’individuo in termini di know-how e performance, cioè come copre il ruolo a cui è assegnato) e su questi presupposti definire:
a) il livello retributivo;
b) il compensation mix;
c) i criteri di progressione retributiva.
La ratio della costruzione di questo sistema di regole per gestire le retribuzioni si fonda su due assunti psicologici che possiamo sintetizzare come segue: primo, la retribuzione è un fattore igienico più che motivante, non motiva di per sé, ma demotiva se non è percepita come equa; secondo, se esiste un’effettiva motivazione, gli incentivi economici possono essere un importante boost per rafforzarla e quindi migliorare la prestazione. Proprio per questi motivi sappiamo che è fondamentale approcciare il tema del reward in un’ottica “totale”, cioè essere consapevoli che problemi in termini di gestione inadeguata delle persone e prospettive di sviluppo carenti non possono essere compensati dal denaro. Anzi, i soldi possono spesso diventare un fattore che, venendo gestito in modo “compensativo”, può perfino esacerbare il senso di iniquità e di mancanza di meritocrazia.
Considerando quanto sopra, è chiaro come una reward policy che, per difetto di progettazione o per lacune applicative, non riesca a impedire il gender pay gap, contravvenga alle regioni stesse per cui ha senso introdurla in azienda. E questo, magari lentamente, ma inesorabilmente, finirà per ripercuotersi sul livello di motivazione e quindi di performance, non solo del personale femminile.
In conclusione, se le motivazioni di giustizia sociale per la parità retributiva fra uomini e donne non dovessero bastare (sic!), ci sono evidenti ragioni per cui ogni singola impresa dovrebbe preoccuparsi di un gap salariale significativo e farsi di conseguenza una domanda: quali opportunità stiamo perdendo a causa di una politica retributiva che non funziona?
[1] V. Hunt, S. Princte, S. Dixon-Fyle, L. Yee “Delivering through Diversity” (McKinsey & Company, 2018). Questi risultati sono confermati fra gli altri da M. Noland, T. Moran e B. Kotschwar nella ricerca “Is Gender Equality Profitable? Evidence from a Global Survey” (Peterson Institute for International Economics, 2016), dove sono state analizzate 21.980 aziende in 91 paesi nel mondo.
[2] Oltre al già citato studio di McKinsey del 2018, in tal senso si vedano il Sodexo Global Gender Balance Study (2018) e l’analisi di Catalyst, “Quick take: Why Diversity and Inclusion Matters” (2020)
È CEO di JobPricing da giugno 2016 e segue inoltre in prima persona progetti di consulenza in ambito Total Reward, Performance Management e Leadership. Vanta una precedente esperienza di oltre quindici anni come HR & Manager e HR Director in contesti multinazionali, sia nel settore dei servizi che nell’industria.