Di salario minimo e contrattazione collettiva (pt. 1)
Negli ultimi mesi si è parlato molto della possibilità di un salario minimo legale (SML) al fianco dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL), soprattutto perché richiesto dall’Europa con l’ultima direttiva – di prossima pubblicazione ufficiale -; tuttavia, le parti in causa che portano avanti le diverse istanze sono spesso poco chiare per chi non è addetto ai lavori, lasciando non pochi dubbi sulle ragioni di questa necessità o dei pro e dei contro l’eventuale introduzione di una tale misura. Per questo, oggi proveremo a ricostruire l’intera storia, evidenziando pro e contro di una eventuale introduzione di SML. Una seconda nota, invece, proverà ad esporre le criticità sulla definizione del valore stesso del SML e metterà a confronto le diverse proposte sia con i minimi tabellari di alcuni CCNL che con le retribuzioni effettive che l’Osservatorio JobPricing mappa costantemente.
La direttiva europea: i presupposti e il contenuto
Lo si è detto molte volte da due anni a questa parte: la crisi economica causata dalla pandemia da Covid-19 ha colpito particolarmente i lavoratori più fragili, con qualifiche e salari bassi, tanto che il dibattito europeo sui minimi salariali si è intensificato, diventando centrale nell’agenda politica. Tra le ragioni vi è l’incidenza del rischio di povertà tra i lavoratori è molto alta. In Europa, circa il 14% dei lavoratori part-time e il 7% dei lavoratori full-time è a rischio di povertà. Se aggiungiamo poi alla crisi economica l’evidenza che in Europa l’incidenza media dei salari bassi è del 15%, e che proprio la percezione di un salario basso è uno dei fattori che incide sul rischio di povertà[1], non sembra stupire che nel 2020 la Commissione Europea abbia avviato una serie di consultazioni tra sindacati e organizzazioni rappresentative delle imprese per discutere di salario minimo. Sebbene in passato l’opinione degli economisti fosse altamente scettica all’idea dell’introduzione di un salario minimo legale, i più recenti studi empirici mostrano degli effetti positivi in termini di efficienza e produttività delle imprese, maggiore gettito fiscale e, non meno importanti, miglioramenti sulla qualità della vita legati a redditi più alti e minori disuguaglianze.
La direttiva, che dovrà essere recepita nei due anni successivi alla sua pubblicazione definitiva (prevista in settembre), stabilisce il framework all’interno del quale ogni Paese dovrebbe operare per raggiungere l’obiettivo comune di salari equi (nonché uno dei pilastri europei), mediante l’accesso effettivo alla tutela garantita dal salario minimo per tutti i lavoratori tramite il salario minimo legale o la contrattazione collettiva. Quello che viene chiesto agli Stati è di predisporre dei sistemi di monitoraggio e aggiornamento dei salari minimi, che siano in grado di intervenire per evitare che il salario minimo arrivi – indicativamente – al di sotto del 60% del salario mediano nazionale. Non solo, la direttiva vuole far incrementare la copertura della contrattazione collettiva – indicativamente oltre l’80%, in quanto più è alta la contrattazione, più i lavoratori a basso reddito tendono a diminuire. L’Unione Europea cerca di porre l’attenzione, quindi, non solo sull’importanza di avere un salario minimo per legge, ma anche sulla possibilità di utilizzare entrambi gli strumenti per meglio tutelare i lavoratori. Per questo, le strade da percorrere vengono lasciate libere: la direttiva non stabilirà né un salario minimo legale europeo né l’obbligo di istituzione di un salario minimo legale nei Paesi ove questo non c’è.
Ma quali sono le differenze tra le due misure?
Se è vero che tutti i Paesi europei hanno già una forma di salario minimo (in Italia, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia questo è affidato alla contrattazione collettiva, a Cipro vige un sistema misto e nei restanti esiste il salario minimo legale) è bene vedere nel dettaglio come cambia la modulazione tra i due strumenti.
Il salario minimo legale è la retribuzione più bassa oraria, giornaliera o mensile che può essere corrisposta a tutti i lavoratori dipendenti. Il minimo legale è raramente declinato con differenze regionali (di solito succede solo nei grandi stati federali come gli USA), più spesso varia per tipologie di contratto (più basso per i contratti di apprendistato, ad esempio), ma resta fermo che in linea generale è esteso in maniera universale a tutti i lavoratori dipendenti. Nei Paesi dell’Unione, la misura varia notevolmente: dai 332 euro mensili della Bulgaria ai 2.257 del Lussemburgo. I minimi variano principalmente per due ragioni: una è la ragione sociale che ha portato alla definizione della misura (si parla di minimo vitale, ovvero di un ammontare minimo per sopravvivere, oppure di un livello minimo per vivere una vita dignitosa socialmente) e l’altra è sicuramente il costo della vita del Paese.
Con la contrattazione collettiva, invece, la fissazione dei minimi retributivi si ha mediante la redazione di contratti che rappresentano gruppi di lavoratori appartenenti al medesimo settore, che di norma sono rappresentati dalle organizzazioni sindacali. Il contratto in questione può essere esteso in maniera legale a tutti i lavoratori del settore, pur non facenti parte dell’organismo sindacale. In questo modo non è possibile definire un solo minimo, come con il SML, ma ogni settore ha i suoi minimi in base a quelle che sono state le esigenze discusse in contrattazione, rendendo complicata la comparazione tra i diversi Paesi. Tuttavia, il rapporto Minimum Wage in 2022 di Eurofound fa un confronto dei soli minimi tabellari delle dieci figure professionali meno pagate in ognuno dei sei Paesi, senza confrontare le specifiche contrattuali (orario, modalità di svolgimento del lavoro, etc.).[2] Per rendere possibile il confronto viene utilizzata una misura di salario mensile calcolata, per i paesi in cui il minimo tabellare è mensile, come la somma dell’importo contrattuale per il numero di mensilità previste dal contratto diviso dodici mensilità; per i contratti dove il minimo è stabilito in salario orario, la mensilità è ottenuta moltiplicando per il numero di ore che si lavorano solitamente in un mese secondo le ore standard settimanali. Quello che emerge è che gli importi più bassi variano in maniera significativa tra i Paesi. La Figura 1 riporta tale confronto: l’Italia ha i salari più bassi di tutti gli altri: 891 euro/mese è la media dei tre lavori meno pagati, 1.363 la media di tutte le professioni considerate e 1.498 la mediana. La Danimarca, al contrario, è quella che registra i salari bassi più alti: la media dei tre più bassi arriva a 2.551 euro/mese, la media e la mediana di tutti e 10 i lavori sono rispettivamente 2.885 e 2.975 euro/mese. Nello specifico delle professioni considerate, in Italia, dice il rapporto, i meno pagati in assoluto sono i collaboratori familiari (699 euro/mese) e i più pagati i corrieri (1.768 euro/mese); in Danimarca, invece, vengono pagati 2.483 euro/mese per i collaboratori familiari e per i lavoratori nei servizi di pulizia, mentre 3.310 euro/mese per camerieri e baristi.
Il contesto italiano
Nel nostro Paese il dibattito sul SML – che negli ultimi vent’anni torna periodicamente vivo – ha riportato sulle prime pagine dei giornali problematiche quasi storiche che riguardano la contrattazione collettiva, che per anni sono rimaste più relegate nelle stanze degli addetti ai lavori.
In primo luogo, si parla tanto della cosiddetta applicabilità erga omnes dei contratti. I Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro fissano, tra le altre cose, i minimi tabellari, ma la loro valenza non è vincolante per tutti (erga omnes), bensì circoscritta a coloro che fanno parte di organizzazioni firmatarie di accordi. Tuttavia, con l’art. 36 della Costituzione, che sancisce il diritto ad <<una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa >>, e l’art. 2099 del C.C., che prevede che il giudice possa determinare la retribuzione del lavoratore in assenza di accordi collettivi o tra lavoratore e singola organizzazione, i CCNL possono essere applicati anche ai lavoratori di organizzazioni non firmatarie. La mancanza di questo automatismo, però, fa sì che spetti ai lavoratori, in sede giudiziale, e in condizione di mancata tutela, l’onere della prova, in quanto le imprese non sono obbligate per legge ad applicare nessun CCNL.
Il secondo tema, strettamente legato al primo, interessa il numero di contratti esistenti: non solo non esiste un solo contratto per ogni settore, bensì negli ultimi anni i contratti sono cresciuti in misura estremamente significativa: una ricerca della Fondazione di Vittorio (FdV), mostra che dal 2012 al 2021 i contratti depositati sono cresciuti dell’80%, arrivando al 31 dicembre 2021 a 992 contratti depositati, di cui solo 906 riguardanti i settori privato extra-agricolo e non domestico e vengono monitorati mediante il sistema dei flussi informativi UNIEMENS.[3] Se da una parte l’esigenza di una pluralità di contratti nasce dalle specificità del lavoro e delle tipologie di imprese ( industriali, ma anche artigiane, cooperative etc.), la crescita esponenziale dei contratti delle organizzazioni minori degli ultimi dieci anni – detti anche pirata – è legata principalmente al fenomeno del dumping salariale, ovvero allo scopo di portare i minimi tabellari al ribasso.
La copertura della contrattazione e le retribuzioni
Date queste premesse, è utile analizzare sia i dati relativi alla distribuzione e copertura dei CCNL che ai livelli salariali che si osservano nel settore privato per capire quanti sono i lavoratori esposti a tutele minori o interamente scoperti. Non esistono però dei dati “ufficiali” sui tassi di copertura, ma per quanto ci siano delle stime differenti a seconda del tipo di dati utilizzati, si supera sempre l’80%. Esistendo una problematica legata al fatto che i contratti registrati sono tantissimi, e il livello di tutele e salari è differente, è importante però capire di che tipo di coperture si parla. La FdV mostra che dei 992 CCNL registrati, 662 risultano scaduti e 370 in vigore. Inoltre, solo 246 contratti sono sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiori (CGIL, CISL, UIL), mentre i 746 restanti sono sottoscritti sia da organizzazioni minori rappresentate al CNEL (CONFSAL, CISAL, CIU e UGL) che da organizzazioni non rappresentate. Tuttavia, su un totale di circa 13,6 milioni di lavoratori (esclusi quelli agricoli e domestici), 12,9 milioni sono coperti da CCNL e circa 730 mila risultano registrati nei flussi UNIEMENS senza contratto registrato; dei 12,9 milioni poi, circa 12,5 sono coperti da contratti delle maggiori organizzazioni, cioè circa il 97%.[4]
Volendo entrare nello specifico di quelle che sono le caratteristiche dei lavoratori non coperti dalla contrattazione, secondo le stime INAPP della nota audizione senato (gennaio 2021), il settore in cui la copertura è più bassa è quello degli Alberghi e Ristoranti (81,4%), mentre il settore dell’Industria estrattiva, energia la più alta (96,2%). La copertura poi cresce al crescere della dimensione aziendale ed è più bassa al Mezzogiorno (84,1) rispetto a tutto il resto dell’Italia.[5]
Tirando le somme, si potrebbe dire che i lavoratori vulnerabili in termini salariali sono quelli non coperti dai contratti principali (400 mila) o non coperti affatto (730 mila) oppure facenti parte i settori agricolo (921 mila circa nel 2020) e domestico (801 mila circa nel 2020), in quanto settori caratterizzati da alti tassi di lavoro irregolare (secondo Istat sono rispettivamente 39,7% e 58,6% delle Unità di Lavoro a tempo pieno). Questa conclusione è la stessa che si può dedurre dai dati presentati da Eurofound: i salari più bassi sono di lavoratori che operano proprio nei settori agricolo, domestico e della ristorazione.
Approcciando il problema dal lato delle retribuzioni più basse, secondo una memoria ISTAT di gennaio 2021, basata sui livelli salariali 2018, in Italia possiamo definire una retribuzione oraria bassa quando questa è inferiore ai 7,66 euro lordi (che è pari ai due terzi della mediana della retribuzione oraria nazionale del settore privato extra agricolo). Il dato è calcolato sulla Retribuzione Annua Lorda che considera tutto il lavoro straordinario, ma anche le ferie e le ore libere non godute, i giorni festivi, etc. Sempre secondo ISTAT, i lavoratori a bassa retribuzione rappresentano il 6% dei lavoratori e si concentrano tra gli apprendisti (28%) e gli operai (7,1%), ovvero tra i lavoratori in formazione o inquadrati nei livelli più bassi previsti dai CCNL. La diffusione è poi maggiore nelle donne (6,5%) che negli uomini (5,5%), negli stranieri (8,7%) che tra i nativi italiani (5,4%), tra i giovani al di sotto dei 29 anni (10,9%) rispetto alle altre classi di età (>5%), nel Mezzogiorno (9,5%) rispetto al resto dell’Italia (che va dal 6,5% del Centro al 4,1% del Nord Est) e nelle piccole imprese (7,6%) rispetto alle imprese di grandi (4%) e medie dimensioni (6%).
In tutta l’economia, secondo Istat, le retribuzioni contrattuali più basse (anno 2020), tuttavia, sono comunque quelle degli operai agricoli, pari a 6,15 euro; nel comparto industriale sono quelle del livello più basso del CCNL pelli e cuoio, pari a 7,92 euro; nel settore dei servizi, infine, la retribuzione più bassa è quella di 7,39 euro per il livello più basso del CCNL radio e televisioni private.[6]
Una prima conclusione
Mettendo insieme tutti i pezzi della storia, la copertura sindacale delle maggiori organizzazioni è sicuramente presente e le retribuzioni tabellari basse sono circoscritte ad alcuni settori e inquadramenti. Tuttavia, quello che emerge è che dove la diffusione della contrattazione è difficilmente misurabile o comunque è inferiore rispetto ad altri settori, i salari sono bassi. Questi settori sono esattamente quelli in cui i livelli di lavoro irregolare è molto alto, così come l’incidenza dei lavoratori atipici, i livelli di part-time involontari o i lavoratori occasionali e precari.
Una strada percorribile sarebbe certamente quella del riordino dei CCNL, ma sarebbe necessario, secondo chi sostiene questa strada, prima garantire per legge l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, seguito poi dalla definizione dei contratti giudicati “di riferimento” per ogni settore, con conseguente eliminazione di tutti i contratti pirata o meno rappresentativi, con condizioni salariali svantaggiose rispetto agli altri. Tuttavia, date le condizioni di partenza delle relazioni industriali nazionali, queste azioni sembrano estremamente dispendiose in termini di tempo e fattibilità.
È lecito, dunque, chiedersi se un sistema di minimi retributivi affiancato ad un SML non possa essere la risposta alle carenze retributive che si riscontrano nel mercato del lavoro, seppure esse siano un minoranza, così come è stato fatto, ad esempio, nella vicina Germania, che ha introdotto il SML nel 2015 inizialmente solo in alcuni settori in cui si faceva maggiore fatica a controllare l’efficacia della contrattazione collettiva, e la copertura della contrattazione era estremamente più bassa.[7] Inoltre, l’ introduzione di un SML potrebbe risultare efficace anche volendo intraprendere azioni concrete che possano contrastare la proliferazione dei contratti pirata e, se strutturata in maniera tale da includere anche i lavoratori parasubordinati non coperti dalla contrattazione (come succede, ad esempio, in Regno Unito), potrebbe avere una influenza concreta nell’incidenza della povertà lavorativa.[8] Questo ultimo punto, ovvero valutare con attenzione il target della platea alla quale applicare un SML, sarà eventualmente fondamentale: non includere lavoratori parasubordinati (come ad esempio i collaboratori continuativi oppure gli autonomi occasionali) potrebbe spingere alla proliferazione di queste forme atipiche con l’intento di aggirare il SML.
La strada del SML, comunque, non è priva di rischi, né garantisce un risultato positivo: il problema più che nella predisposizione dei contratti sembra essere nella volontà della loro applicazione corretta o applicazione in generale. Cosa garantisce che un SML venga applicato laddove già i minimi tabellari vengono elusi illegalmente? E posto che il SML di norma esclude i lavoratori atipici, come tutelare il maggiore ricorso a queste forme di contrattazione nel momento in cui si decida di introdurre la misura? Non ci sono delle risposte a priori a queste domande; tuttavia, quello che della direttiva dovremmo sicuramente accogliere in brevissimo tempo è la necessità di sistemi di monitoraggio e controllo sulla corretta applicazione della legislazione in materia di lavoro, sia questa sotto la forma di CCNL o di SML, che siano snelli, dinamici e permettano di intervenire e tutelare i lavoratori nei casi in cui la legge non viene rispettata.
[1] Per approfondimenti su questo tema, si veda “Relazione del gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia” curata dal Gruppo di lavoro “Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa” istituito con Decreto Ministeriale n. 126 del 2021.
[2] Che confronta i 10 lavori a più basso salario nei Paesi in cui i minimi salariali sono affidati esclusivamente a contrattazione collettiva. La lista comprende: 1) collaboratori familiari; 2) addetti ai servizi di pulizie nelle imprese (uffici, hotel, etc.); 3) addetti alle vendite; 4) camerieri e baristi; 5) cuochi; 6) addetti ai servizi di assistenza e cura domiciliari; 7) addetti alla cura dei bambini; 8) lavoratori standard agricoli, forestali e della pesca; 9) lavoratori stagionali agricoli, forestali e della pesca; 10) addetti ai servizi logistici (ad es. corrieri)
[3] Il sistema UNIEMENS contiene tutte le denunce obbligatorie inviate mensilmente all’INPS dai datori di lavoro del settore privato, contenenti informazioni retributive e contributive per ogni lavoratore.
[4] Le stesse tematiche sono riprese anche da ADAPT in Materiali di discussione | N. 5/2022 – Una legge sul salario minimo per l’Italia? a cura di Emmanuele Massagli, Diletta Porcheddu, Silvia Spattini.
[5] Per l’analisi completa si veda: Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea (COM(2020) 682 final) – Inapp, nota per audizione Inapp presso la Commissione 14° Senato della Repubblica, 11 gennaio 2021
[6] Le stime Istat considerano le retribuzioni contrattuali di 2.855 figure professionali riferite a 73 CCNL (esclusi i dirigenti) monitorati dall’Indagine sulle retribuzioni contrattuali di circa 12,4 milioni di dipendenti equivalenti a tempo pieno. La retribuzione oraria lorda è calcolata come rapporto tra i livelli minimi retributivi tabellari (aggiornati a novembre 2020 e comprensivi degli istituti contrattuali quali mensilità aggiuntive, festività cadenti la domenica, indennità e scatti di anzianità) e il corrispondente orario lordo annuo (incluse le ore a titolo di ferie, festività e altre riduzioni di orario retribuite previste dai CCNL). Per approfondimenti si veda: https://www.istat.it/it/files//2021/01/Memoria-Istat_Direttiva-COM2020-682_20gennaio2021.pdf
[7] Per approfondimenti sull’introduzione tedesca si veda, ad esempio, http://farecontrattazione.adapt.it/la-contrattazione-collettiva-in-germania-le-tendenze-del-2021/.
[8] Per approfondimenti sul perché il salario minimo non basta a ridurre la povertà lavorativa si vedano, ad esempio: Per i lavoratori poveri va ripensato tutto il sistema di sostegno, di Massimo Baldini e Daniele Pacifico su lavoce.info del 26 ottobre 2021, e anche In-work poverty: che fare, di Silvia Ciucciovino, Andrea Garnero, Mariella Magnani, Paolo Naticchioni, Michele Raitano, Stefani Scherer E Emanuela Struffolino in lavoce.info del 31 gennaio 2022.
Phd, Economista con particolare attenzione per le disuguaglianze, esperta in analisi microeconometriche.
Durante il dottorato si è occupata di welfare economics, focalizzandosi su subjective wellbeing e qualità della vita.
Da agosto 2020 si è unita al team di JobPricing dove si occupa di ricerche e data management.