Mind the Gap | Il cambiamento culturale per colmare il divario di genere
Quando parliamo di gender gap sul lavoro spesso la nostra mente va per prima cosa al tema del gap salariale, aspetto purtroppo noto e tristemente confermato anche dal report annuale dell’Osservatorio Job Pricing.
Esistono tuttavia diversi ambiti, oltre a quello retributivo, in cui il gender gap si manifesta all’interno delle organizzazioni e nel mondo professionale, a partire dal diverso livello di ingresso delle donne nel mercato del lavoro, al divario nelle possibilità di crescita ed accesso ad alcune posizioni per chi vi permane, per arrivare alle stesse condizioni e opportunità di lavoro.
Se guardiamo innanzitutto ai dati sull’occupazione, la realtà non è certo confortante. L’Italia è ultima in Europa per occupazione femminile (dati Censis, 2019) con 9.768.000 lavoratrici attive che rappresentano il 42,1% degli occupati complessivi. Indicativo anche il tasso di inattività nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni che è pari al 43,5% per le donne contro un 25% per gli uomini (Istat 2019). Ciò significa che 1 donna su 2 in età compresa tra i 15 e i 64 anni non è né occupata, né disoccupata, né in cerca di lavoro.
Abbiamo quindi una prima differenza legata alla presenza nel mondo professionale: le donne nel mercato del lavoro sono in numero inferiore rispetto agli uomini, molte non cercano nemmeno di entrarvi e per chi vi rimane, anche grazie ad una preparazione universitaria con votazioni elevate, il cammino verso posizioni apicali è arduo e le differenze salariali pressoché inevitabili.
Difficile del resto dedicare energie e impegno al lavoro in presenza di una notevole disparità anche nell’utilizzo del tempo non retribuito tra donne e uomini (altro gap!), con le prime destinate, in coerenza con vecchi stereotipi, ad essere di fatto le principali attrici del lavoro di casa e di cura. Basti pensare per esempio che in ambito domestico – per le donne nella fascia 25-44 anni, in coppia con figli/e occupate come il loro partner – il tempo quotidiano dedicato mediamente al lavoro familiare non retribuito è pari a 5,3 ore (di cui 3 per il lavoro domestico), cifra che scende a 2,2 ore ( e 1 ora per il lavoro domestico) per gli uomini (Istat 2019).
La visione della cura come ambito naturalmente e prettamente femminile, sostiene un ulteriore gap legato alla genitorialità che incide sull’accesso e la permanenza al lavoro delle donne: fra le coppie giovani con prole – per esempio -solo nel 28% dei casi lavorano entrambi a tempo pieno.
La metà delle donne tra i 25 e i 64 anni con 2 o più figli/e non lavora, privilegiando la dimensione domestica. Nelle coppie con figli/e la tipologia di composizione più diffusa resta quella con solo il padre occupato a tempo pieno (che riguarda il 32% delle coppie) e la madre non occupata (dati Sole24ore).
Le conseguenze pesano sul piano dell’autonomia economica, della realizzazione professionale, dei carichi di cura delle donne e – in una prospettiva di medio lungo termine – sulle prospettive pensionistiche e di qualità della loro vecchiaia (si stima che le pensioni delle donne sono in media il 30% più basse di quelle degli uomini).
Se entriamo nel mondo organizzativo e sociale, registriamo un gap tra i generi anche nell’esercizio della responsabilità e del potere.
Nelle Aziende private italiane, solo il 32% dei dirigenti è donna, contro il 68% di uomini (Rapporto Cerved) Ciò significa che il potere decisionale e di guida delle organizzazioni è prevalentemente maschile e che le donne incidono meno sulle scelte e le decisioni strategiche, aspetto che si riflette come un boomerang in una minore attenzione ai temi della equità di genere, non trovando una rappresentanza e una voce su questi aspetti nei luoghi decisionali.
Questo avviene anche nel mondo della politica, impegnata a definire strategie sociali ed economiche che impattano sulla collettività, dove il gap di presenza nei ruoli di vertice non tende a ridursi: nel mondo solo 10 paesi su 193 hanno una donna come capo di governo (5,2%) (UN Women), in Italia dal 1948 nessuna donna è stata presidente del consiglio o ministra dell’economia.
La campagna di sensibilizzazione #Datecivoce promossa durante l’emergenza epidemiologica va proprio nella direzione di richiedere il ricorso anche alle competenze femminili per far fronte alla pandemia e in risposta all’esiguo numero di donne coinvolte nei diversi comitati attivati dal governo Conte (qualche dato: Comitato tecnico-scientifico presieduto da Borrelli: 20 componenti, solo uomini, Primo Comitato di esperti in materia economica e sociale per le misure post-Covid19 presieduto da Vittorio Colao: 18 membri, 4 donne , Commissione web data e impatto socioeconomico: 1 donna su 10 nel gruppo tecnologie per la gestione dell’emergenza e 1 su 10 in quello sui profili giuridici della gestione dei dati (dati Sole24ore).
Del resto il rapporto tra donne e lavoro rimanda ad una serie di discriminazioni che hanno caratterizzato la storia italiana: basti pensare che nell’ Art. 37 della Costituzione (1948) si parla di “Diritto alla parità di retribuzione tra uomini e donne” ma si ribadisce che le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della funzione familiare della donna, ritenuta essenziale, o al “Coefficiente Serpieri” in agricoltura, abolito solo nel 1964, in base alla quale il lavoro femminile veniva considerato pari al 60% di quello maschile. C’è quindi un gap di rappresentanza, diritti e posizioni da colmare anche dal punto di vista socio culturale: abbiamo fatto diversi passi in avanti ma abbiamo certamente ancora un buon margine di miglioramento.
Quali azioni sono dunque possibili dentro e fuori le organizzazioni per colmare il divario di genere?
E’ piuttosto evidente come dietro a questi dati si annidino forti retaggi del passato e stereotipi consolidati: accanto quindi allo sviluppo di strumenti e interventi concreti – come per esempio vantaggi fiscali per le aziende che si impegnano in politiche di equità di genere – è fondamentale e necessario promuovere un lavoro di tipo culturale, sensibilizzando sul tema e decostruendo stereotipi e immagini limitanti del maschile del femminile, dei loro ruoli nei diversi ambiti di vita (famiglia e lavoro), delle modalità e ambiti di esercizio del potere e non ultimo della gestione del tempo. La battaglia contro il gender gap si gioca in primis su questi aspetti.
Questo significa partire da lontano, iniziando al di fuori delle aziende nei principali contesti educativ e formativi (famiglia e scuole in primis) ma anche comunicativi, in cui avviene la costruzione sociale del genere e si veicolano quei messaggi stereotipati e limitanti che nel tempo sono in grado di generare gli effetti descritti dai dati presentati in precedenza.
Ragazzi e ragazze ricevono culturalmente input molto differenti rispetto all’ambizione, alle sfere di responsabilità associate al genere, all’esercizio del potere e alla sua gestione, alle aree di competenza che li indirizzano verso scelte prima di studio, poi professionali e di vita fortemente connotate in termini di genere e prescrittive rispetto al “a chi spetta cosa” e al come muoversi nei diversi contesti (ambito professionale o familiare)
Il primo passo verso l’eliminazione del gender gap (di tempo, ruoli, competenza, presenza) inizia quindi ancora prima che le persone accedano al mondo del lavoro e richiede lo sviluppo di nuovi modelli educativi, aperti e plurali, nuove prospettive di identità e realizzazione, a vantaggio sia degli uomini sia delle donne.
Come Fondazione Libellula riteniamo che anche dentro le organizzazioni non si possa prescindere da aspetti culturali su cui è possibile lavorare con la formazione, il dibattito sul tema da parte di uomini e donne, la consapevolezza e la ricerca di nuovi modi di fare azienda.
Formazione intesa come sviluppo, a tutti i livelli, della capacità di riflettere e identificare stereotipi, limiti culturali, discriminazioni al fine di superarli e di sostituirli con comportamenti inclusivi, aperti alla diversità e capaci di imparare da essa.
Consapevolezza come presa di coscienza del gender gap e dei suoi effetti, sia nel singolo che nell’organizzazione, che si traduce poi in una rilettura dei propri processi e strumenti (per esempio di selezione, valutazione, rewarding) in un’ottica di genere e in cambiamento che tenga conto delle diverse esigenze e prospettive.
Confronto inteso come diffusione di best practice e condivisione di casi virtuosi di aziende inclusive capaci di rappresentare un modello nuovo di organizzazione.
Infine le donne, che ruolo possono avere nel ridurre il gender gap?
Fondazione Libellula ritiene l’empowerment, o potenziamento della self leadership del mondo femminile, come un ingrediente centrale, sostenendo la valorizzazione del proprio potere personale e della capacità di utilizzarlo per influenzare il contesto, fare squadra con altre donne e uomini e per progressivamente smontare i tasselli culturali su cui il gender gap si sostiene.
Risulta in questo senso fondamentale costruire, promuovere e diffondere nuovi modelli di leadership e realizzazione integrandoli in un equilibrio complessivo più ampio capace di tenere insieme i diversi ruoli che ciascun individuo ricopre (uomo o donna che sia) nella società e in cui le donne possano riconoscersi e valorizzare le loro risorse e competenze.
Come donne e uomini adulti abbiamo anche una responsabilità verso le nuove generazioni, offrendo loro, come si diceva, stimoli differenziati e molteplici possibilità di sviluppo delle loro identità, anche accompagnando gli uomini e le donne del futuro a compiere scelte di studio e professionali non guidate da aspetti e stereotipi culturali ma da reali ambizioni e potenzialità.
In questo senso favorire l’accesso ai corsi di studio STEM – a maggior tasso di occupazione e a miglior livello salariale –da parte delle ragazze appare un altro importante traguardo di progressiva eliminazione del gender gap.
Il tutto ricordando un aspetto importante: combattere le diverse forme di gender gap non è solo una questione di carattere etico, di equità e giustizia ma comporta migliori risultati di performance per le organizzazioni capaci di operare in tal senso e un miglior benessere per le persone, quindi vantaggi importanti e sostanziali per tutti/e.
E’ Senior Consultant e D&I Project Designer di Fondazione Libellula (www.fondazionelibellula.com), che ha in sé il primo network di aziende unite contro la violenza e la discriminazione di genere. Per Fondazione cura lo sviluppo di progetti e contenuti per le aziende aderenti al network. Psicologa e psicoterapeuta si occupa dal 2009 di tematiche di Diversity&Inclusion e di progetti contro la violenza sulle donne sia in ambito organizzativo sia in ambito sociale e clinico.