Il Benchmark di settore: è sempre la scelta giusta?
30 Giugno 2021
Tempo di lettura: 3 minuti
L’esercizio del benchmarking retributivo può aiutare a gestire situazioni che un professionista HR si trova a dover affrontare sia nel quotidiano, come ad esempio la richiesta di un aumento o la definizione della RAL per un’assunzione, sia nel medio-lungo periodo, per esempio la costruzione e gestione delle politiche retributive aziendali o una forma di attenzione nei confronti del budget del personale.
Nella quasi totalità degli approcci al benchmarking retributivo il settore è l’informazione cardine su cui le aziende impostano il confronto con il mercato; d’altro canto, se dovessimo chiedere a un’azienda con chi si confronta con il mercato (non solo sull’aspetto retributivo) la risposta più naturale sarebbe “i miei competitor diretti”.
Ma è sempre corretto utilizzare il settore come riferimento di mercato?
A ciascun mercato la sua retribuzione
Per certo si può affermare che il settore, nel mercato, è un reale parametro di differenziazione retributiva. L’appartenenza a un settore specifico, infatti, può fare la differenza dal punto di vista dello stipendio, aldilà di luoghi comuni quali “lavorare in banca è più redditizio” o “i salari in agricoltura sono tra i più bassi” (che peraltro trovano riscontro dai dati di mercato). Questa dinamica è determinata da due caratteristiche generali, ma distintive del mercato del lavoro:
- I settori più remunerativi sono quelli in cui la popolazione operaia è numericamente meno presente, o, all’opposto, dove la popolazione manageriale è più consistente;
- I settori più remunerativi sono quelli composti prettamente da lavoratori ad alta specializzazione tecnica e, dunque, altamente qualificati e specializzati, che godono di alte remunerazioni.
Sostenere che la differenza retributiva effettiva tra settori sia dettata dai minimi retributivi imposti dai CCNL è invece errato. Il minimo tabellare rappresenta un valore “di partenza”, che nel mercato viene applicato ormai solamente ai ruoli più “bassi” delle organizzazioni. La contrattazione salariale è guidata, invece, con sempre maggiore frequenza dalla contrattazione individuale, che spesso coinvolge non solo l’aspetto retributivo ma anche la determinazione dei livelli contrattuali. Volendo dare un riferimento numerico, i livelli retributivi di ingresso nel mercato risultano in media il 10% più alti rispetto ai minimi tabellari corrispondenti dei CCNL.
Sul mercato è possibile reperire analisi e report che forniscono differenziali salariali settoriali: tra di essi il rapporto annuale JP Salary Outlook dell’Osservatorio JobPricing fornisce una fotografia molto puntuale delle retribuzioni di mercato del settore privato quantificando quelle che sono le differenze retributive in funzione dell’appartenenza a un settore specifico.
Questa fotografia permette di osservare come i settori bancario-finanziario e farmaceutico siano quelli in cui gli stipendi medi più alti, ed entrambi sono industry ad alta concentrazione di professionalità altamente qualificate e con una presenza operaia minoritaria. Viceversa, i salari più bassi sono propri di industry in cui la componente occupazionale ad alto capitale umano è minore o comunque residuale, come il settore agricolo, l’Ho.Re.Ca. e il settore turistico. Nonostante il salario medio settoriale sottolinei le differenze tra le diverse industry, a causa dell’effetto della composizione occupazionale i differenziali salariali potrebbero essere distorti. Per eliminare questa distorsione potrebbe essere più opportuno un confronto settoriale a parità di qualifica contrattuale. Analizzando ad esempio la graduatoria degli impiegati osserviamo come sia il settore Oil&Gas a pagare maggiormente, non a caso caratterizzato in gran parte da lavoratori con elevati livelli di competenza tecnico-specialistica.
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