Welfare e well-being, leve strategiche del business
L’evoluzione della percezione del valore per i lavoratori, tra pandemia e innovazione sociale
La trasformazione del rapporto tra lavoro e vita privata delle persone è un processo iniziato in epoca relativamente recente, seppur ben prima dell’avvento dell’era pandemica. Negli ultimi vent’anni le esigenze dei lavoratori sono evolute e il denaro è oggi una leva, seppur necessaria, non sufficiente ad attrarre e trattenere talenti.
Del resto, anche i vecchi amministratori delle risorse umane hanno poco a che vedere con le nuove figure del settore HR, sempre più preoccupate di curare la brand reputation dell’azienda, cioè la percezione dei candidati rispetto alla validità o meno dell’azienda come datore di lavoro, e l’employee engagement – ovvero quanto i dipendenti sentono di appartenere all’azienda, quanto ne sono coinvolti e ingaggiati.
Questa trasformazione è stata dettata da molteplici fattori, primo tra tutti il cambiamento sociale legato profondamente a una evoluzione tecnologica che ha mutato radicalmente il modo di comunicare e di interagire anche sui luoghi di lavoro. La rivoluzione copernicana che stiamo vivendo sembra riportare la persona al centro delle dinamiche lavorative: non è più questa a spostarsi – anche fisicamente – verso il lavoro, ma è il lavoro che tende a doversi adattare alle sue esigenze.
Il benessere al centro: prima e dopo la pandemia
In questo contesto ha preso piede all’inizio del nuovo millennio la diffusione delle politiche di conciliazione vita-lavoro, ovvero l’insieme delle iniziative del datore di lavoro finalizzate ad incrementare il benessere del lavoratore attraverso la messa a disposizione di beni e servizi di differente natura. Well-being in azienda non viene più inteso solo come ambiente lavorativo favorevole, ma soprattutto come benessere mentale e fisico dei lavoratori.
In Italia, lo scenario pre-pandemico ha visto uno sviluppo costante, seppur maggiormente concentrato nelle regioni del Nord e del Centro, di piani di welfare aziendale basati sull’erogazione di flexible benefits, dove è il dipendente stesso a decidere di quali servizi fruire a seconda delle sue esigenze. L’erogazione “flessibile” dei benefit è un chiaro esempio di adattamento delle aziende ai nuovi contesti sociali, dove i bisogni da soddisfare per generare benessere sono troppo differenziati tra gli individui e troppo rapidi nella loro evoluzione per essere incasellati in sistemi statici di welfare aziendale.
La pandemia ha colpito in modo trasversale la nostra società, ponendo ancora di più l’accento sul bisogno di benessere delle persone. È indubbio che questi due anni di COVID-19 abbiano portato a un’accelerazione del processo di trasformazione del lavoro già in corso, sia in termini di diffusione degli strumenti tecnologici necessari ad abilitare azienda e lavoratori a condurre il business da luoghi diversi dall’ufficio (la tanto agognata innovazione digitale), sia in termini di profonda trasformazione delle politiche HR.
Perché si cambia lavoro: alcuni dati a confronto
Gli impatti di questo repentino boost all’evoluzione della concezione del lavoro sono ancora da scoprire fino in fondo. Negli Stati Uniti si parla di Great Resignation e di YOLO Generation, giovani che preferiscono rinunciare al lavoro, perché “You Only Live Once”.
LinkedIn ha provato a indagare i primi impatti del cambiamento del mercato del lavoro, nonché della percezione del lavoro stesso, attraverso la ricerca “The Reinvention of Company Culture”. L’indagine ha voluto approfondire le motivazioni della ricerca di un nuovo lavoro tra gli utenti del social: al primo posto troviamo l’equilibrio tra il lavoro e la vita privata (63%), seguito poi da una giusta retribuzione e dai benefit (60%).
Al contempo, il social network più diffuso in ambito business ha analizzato le ricerche pubblicate dai recruiter delle aziende tramite i suoi canali, osservando un aumento dell’83% delle offerte di lavoro che menzionano la flessibilità del lavoro proposto. Questi post, dice LinkedIn, risultano essere oltre il 30% più attrattivi per i Millennials (nati tra il 1981 e il 1996) e il 77% più attrattivi per la Generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012).
In Italia i dati sull’occupazione sembrano rispecchiare solo in parte questa tendenza. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Banca d’Italia hanno commentato i dati ufficiali relativi all’occupazione emessi a fine 2021 affermando che «complessivamente la dinamica delle dimissioni appare strettamente associata a quella della domanda di lavoro a tempo indeterminato».
Le analisi condotte dall’Osservatorio JobPricing possono aiutare a capire, dati alla mano, la percezione dei lavoratori del Bel Paese in termini di soddisfazione del proprio pacchetto retributivo e, di conseguenza, le loro motivazioni al cambiamento. Da quello che emerge dall’ultimo Salary Satisfaction Report, sebbene la retribuzione fissa sembri restare il fattore decisivo per la scelta del posto di lavoro, il peso degli elementi intangibili della retribuzione è cresciuto significativamente nel tempo, fino a superare quello degli elementi tangibili.
Tra la lettura macroeconomica e la percezione dei lavoratori, si trovano i dati raccolti dall’Associazione Italiana Direttori del Personale (AIDP). Il 75% delle aziende interrogate dall’Associazione ha visto un significativo aumento del volume delle dimissioni volontarie soprattutto nel Nord Italia. Il fenomeno ha interessato principalmente i giovani compresi nella fascia d’età 26-35 anni con mansioni impiegatizie (82%), in particolar modo nei settori informatici, della produzione e del commercio.
I dati di AIDP confermano inoltre quanto già osservato. Al primo posto tra i motivi delle dimissioni, in accordo con quanto riportato dalla lettura del Ministero e di Banca d’Italia, c’è la ripresa del mercato del lavoro dopo la crisi post-pandemica (48%), seguita dalla ricerca di più favorevoli condizioni economiche (47%). Anche da questa indagine emerge come l’ottenimento di un miglior equilibrio tra vita privata e lavorativa abbia un peso significativo nelle motivazioni del cambiamento lavorativo (41%).
Total reward tra salario, welfare e well-being
Come si è osservato, la domanda e l’offerta di lavoro sono oggi significativamente diverse rispetto a quelle tratteggiate nei manuali di management di vent’anni fa. Allo stesso modo, piuttosto diversa risulta essere anche la merce di scambio che collega le due forze del mercato: a fronte di un’offerta di competenze professionali e umane “evolute”, la moneta di scambio non è più solo il denaro.
Il Salary Satisfaction Report dell’Osservatorio JobPricing analizza da anni la soddisfazione dei dipendenti italiani rispetto ai pacchetti retributivi che percepiscono. Il dato relativo alla soddisfazione generale, strutturalmente basso, per il 2021 si attesta a 4,1 su una scala da 0 a 10. È interessante notare come questo dato cambi a seconda della composizione del pacchetto retributivo percepito dai dipendenti: la soddisfazione minima (2,9) si registra in presenza di pacchetti costituiti dalla sola retribuzione monetaria fissa. In presenza di altri elementi retributivi (monetari e non monetari), il dato aumenta sensibilmente, fino a un massimo di 6,1 punti in presenza di obiettivi di lungo termine.
Da quello che emerge dall’indagine nel suo complesso, le leve strategiche per attrarre e soprattutto trattenere i talenti, oltre al denaro contante, si trovano nella presenza di una prospettiva di crescita, di un’attenzione alla conciliazione tra la vita privata e quella lavorativa del dipendente. Ciò che si rileva è la tendenza generale a qualificare il tempo, piuttosto che quantificarlo.
La crescente rilevanza degli aspetti non monetari nei pacchetti di total reward non deve essere confusa con una sostituzione della retribuzione monetaria. I lavoratori vogliono “il pane e anche le rose”, come nel celebre slogan delle operaie tessili di Lawrence, Massachussets all’inizio del secolo scorso.
Questo è tanto più vero quanto più le politiche finalizzate generalmente al “benessere” non incidono sulla crescita economica e professionale dei lavoratori. Prendendo in considerazione le sole politiche di conciliazione vita-lavoro, sempre il Salary Satisfaction Report rileva che meno del 15% dei lavoratori interpellati sarebbe disposto a rinunciare ad una parte del proprio stipendio per migliori politiche di conciliazione vita-lavoro.
Questo fatto non deve stupire, se si tiene conto che nel nostro Paese negli ultimi due anni il salario medio è diminuito più che in tutti gli altri Paesi dell’area Euro (-6,3% dai dati OCSE 2022) e negli ultimi trent’anni risulta essere l’unico Stato, tra i Paesi OCSE, ad avere registrato una diminuzione pari al 2,9% del salario medio annuo.
La funzione HR, fucina della strategia aziendale
Gli aspetti intangibili della retribuzione sono oggi una leva strategica la cui importanza nel total reward dei dipendenti sembra in costante crescita: questa tendenza è solo uno degli aspetti del nuovo paradigma del lavoro. La soddisfazione del dipendente è sempre meno legata alla percezione di uno stipendio alto e sempre più correlata all’ottenimento di uno stipendio equo, dove grande rilevanza è data all’esistenza di piani di carriera capaci di valorizzare le persone e di politiche del personale realmente integrate con sistemi di welfare e well-being.
Viene spontaneo osservare quanto la funzione HR stia assumendo un ruolo centrale nella definizione della strategia aziendale. In un contesto dove le esigenze dei talenti sono sempre più articolate e differenziate, le Risorse Umane sono chiamate a guidare il cambiamento per evitare che le aziende ne vengano travolte. Compito dell’HR è oggi tradurre la strategia aziendale in una people strategy coerente ed efficace, in grado d’indirizzare la trasformazione dell’organizzazione, delle competenze e dei comportamenti.
Questo è un fenomeno generalizzato, che impatta, sebbene in modo differente, un grandissimo numero di aziende, a prescindere dalla loro dimensione. Se, da un lato, le funzioni HR delle aziende più grandi si sono presentate mediamente preparate a questo cambio di passo, nelle PMI gli uffici di gestione del personale hanno bisogno di strutturarsi rapidamente per poter incidere in modo positivo sulla tenuta della strategia aziendale.
Fondamentale è l’adozione dei giusti strumenti di progettazione delle politiche del personale, fino ad oggi considerati troppo spesso un “nice to have” dalle PMI. In quest’ottica, l’adozione di politiche retributive in linea con le esigenze strategiche d’impresa e con gli andamenti del mercato del lavoro, sono una base indispensabile sulla quale costruire politiche di incentivazione e sistemi di welfare e well-being integrati, concreti ed efficaci.
Senior Consultant di JobPricing, ha guidato per 8 anni la divisione di consulenza di Easy Welfare Edenred, supportando primarie realtà italiane e multinazionali nella declinazione delle loro politiche di welfare e people care. Esperta di progettazione e fiscalità del welfare aziendale, é docente presso l'Istituto Superiore di Formazione di Confindustria Brescia e l'Universitá Niccolò Cusano.