“Today every business is a digital business: non esiste comparto dell’economia in cui non sia presente qualche componente in formato digitale (o digitalizzabile) su cui costruire business model alternativi, con impatti spesso devastanti per le imprese incumbent.”*
L’estrema pervasività e l’estrema velocità dei fenomeni di disruption sono generati dall’ultima ondata di innovazioni digitali: il numero continuamente crescente di persone dotate di uno o più smartphone o tablet insieme con la loro attitudine a essere costantemente connesse, i grandi investimenti fatti nelle reti telecom e nell’infrastruttura cloud, la creazione di ecosistemi con il meccanismo delle app, hanno letteralmente cambiato i nostri stili di vita (si pensi allo sviluppo dei social network) e hanno creato spazi – in quasi tutti i comparti dell’economia – per la nascita di servizi e business model innovativi, spesso in grado di spiazzare quelli esistenti.
È un fenomeno che colpisce pesantemente le vendite di prodotti come le macchine fotografiche compatte, gli orologi e le console per i giochi elettronici, sostituite nelle loro funzionalità dagli smartphone e dai tablet; che cambia il modo di ascoltare la musica e che cancella i confini fra film e programmi TV, mettendo in concorrenza le imprese che operano via Internet (da Apple a Google e Netflix) con gli operatori televisivi tradizionali; che accentua la crisi delle librerie e delle edicole, proponendo modi alternativi di lettura dei giornali e dei libri; che accresce il peso dell’e-commerce ai danni del retail tradizionale e cambia, attraverso modelli di sharing economy, la mobilità urbana e l’accoglienza dei viaggiatori e dei turisti; che propone modalità alternative per effettuare i pagamenti, sottraendo utili alle banche e alle carte di credito, e (nei paesi in fase di crescita) canali alternativi per la gestione del risparmio; che inizia ad avere impatti significativi anche sull’auto e sul modo di viaggiare; che potrebbe permettere nei prossimi anni di introdurre significativi cambiamenti, in chiave di efficienza e di efficacia, nei modi di insegnare nelle scuole e nelle università e nella gestione della sanità e in generale della PA. Con impatti profondi sulla vita di molte imprese, sugli assetti concorrenziali, sull’occupazione e sulla distribuzione del reddito. Con la conseguente necessità, per un Paese come l’Italia, di far nascere e crescere nuove imprese, in sostituzione di quelle che escono (o sono uscite) dal gioco perché a conclusione del loro ciclo di vita e/o perché travolte dalla grande crisi degli ultimi anni o dalla disruption.
Ecommerce: la disruption del retail tradizionale
Il panorama attuale dell’ecommerce presenta modelli diversificati e in grado di sfruttare strategicamente le proprie leve, passando da alternative ove i ricavi in bilancio sono relativi alla sola componente di remunerazione dello stesso operatore (ad esempio eBay o Alibaba) a quelle in cui i ricavi sono quelli dell’intero transato – quando l’operatore gestisce direttamente gli acquisti o si avvale di produttori terzi e si occupa di tutta la componente logistica oltre a quella dei pagamenti, secondo il modello di Amazon, includendone la variante per cui offre a operatori terzi l’accesso alla piattaforma di scambio e a quella logistica, con vantaggi in termini di economia di scala e di quote di mercato.
Sempre più determinante per la competitività di questi player sembra essere diventato, a partire dagli US, il tempo di consegna. Se il trend si confermerà, è probabile uno shake-up del sovraffollato mercato postale e un consolidamento. Ed è possibile che si sviluppino startup per offrire i servizi di consegna rapida al dettaglio tradizionale, con diverse modalità di crescita:
– nei Paesi più sviluppati, dove il retail brick-and-mortar è molto esteso, la crescita dell’e- commerce richiede la disruption del retail tradizionale;
– nei Paesi in crescita, come la Cina e l’India, l’e-commerce sopperisce al sottodimensionamento del retail tradizionale (un fenomeno analogo a ciò che vedremo per il comparto bancario-finanziario).
La maggior diffusione dei dispositivi mobili rispetto ai PC si riflette in una crescita continua della percentuali di acquisto tramite smartphone o tablet. L’effetto è tutt’altro che neutrale. La possibilità di accesso diretto via app all’operatore di e-commerce mette fuori gioco i motori di ricerca, riducendo la loro possibilità di profilare i potenziali acquirenti e di mettere all’asta le relative informazioni. Parallelamente, cresce la voglia per i social network di organizzare l’e-commerce al proprio interno o di fungere da convogliatori – al posto di Google – dei potenziali acquirenti verso i siti di e-commerce.
L’e-commerce non riguarda solo i beni materiali, quelli per cui è indispensabile affiancare una infrastruttura logistica a quella informatica. Ma anche, con business model variegati, i beni immateriali (film, musica, ebook, software, app, ecc.) digitali o digitalizzabili, già visti, e i servizi (viaggi, prenotazioni alberghiere, disponibilità di auto, ecc.).
Sharing economy: accesso invece del possesso
La sharing economy non rappresenta certo un fenomeno nuovo. Ma è un fenomeno che, con la possibilità di accedere a Internet in mobilità, ha molto ampliato la sua portata.
Il primo business model ricalca quelli tipici ad esempio del rent a car. Un esempio è quello del car sharing. L’operatore che mette a disposizione le auto è proprietario delle auto stesse. Ma è un business model che richiede investimenti anche consistenti in asset fisici.
Il secondo business model, che ha in Airbnb e Uber gli interpreti più famosi, l’operatore che mette a disposizione i beni (un appartamento o una stanza nel primo caso, un’auto con conducente nel secondo) non è proprietario dei beni stessi, ma gestisce una piattaforma di scambio fra chi possiede il bene e chi vuole disporne temporaneamente. Ecco che l’operatore in questo caso non investe in asset fisici, ma crea la piattaforma e deve attirare nella stessa sia chi mette a disposizione i beni sia chi ne fruisce.
La finanza e i disrupter
“Today’s tech billionaires have a lot in common with a previous generation of capitalist titans – perhaps toomuch for their own good.” The Economist, 3 gennaio 2015
La finanza ama i “disrupter”: i più grandi esempi sono player Over-The-Top come Apple, Google e Alibaba, ai vertici della capitalizzazione globale. Basti pensare che a tutt’oggi sono 9 le imprese non ancora quotate che “valgono” almeno 10 miliardi e 78 quelle che ne “valgono” almeno 1.
È importante osservare in questo fenomeno il ruolo giocato dall’Europa, quasi assente dal mondo Internet e che teme fortemente che la disruption si estenda e vada a toccare i suoi settori di forza. È forte l’irritazione, specie a Nord delle Alpi, per il disprezzo delle regole o la disinvoltura nell’aggirarle che le OTT manifestano continuamente: riescono legalmente a pagare pochissime tasse, a partire da Apple; sfruttano la propria posizione dominante, come Google nel search e Amazon nell’ecommerce; gestiscono con disinvoltura la privacy, come ancora Google, Facebook o Twitter; sconvolgono gli assetti esistenti per far nascere nuovi mercati, come nei casi di Uber e Airbnb.
Le conseguenze sull’occupazione
Eric Schmidt, Presidente del CdA di Google, ha messo in guardia rispetto al fenomeno della disruption, in particolare di come il continuo e costante sviluppo della tecnologia possa causare, per alcuni anni a venire, la perdita del lavoro da parte di una fetta di occupati non specializzati (middle class workers).
“Innovation has always cost people their jobs. […] Although innovation kills some jobs, it creates new and better ones […] but for workers the dislocating effects of technology may make themselves evident faster than its benefits. Even if new jobs and wonderful products emerge, in the short term income gaps will widen, causing huge social dislocation and perhaps even changing politics.” The Economist, 14 gennaio 2014
Sembra plausibile asserire che questa ondata di disruption tecnologica nel mercato del lavoro abbia appena avuto inizio, con un target abbastanza scontato nel settore pubblico, quello più di tutti reticente alla reinvenzione tecnologica. Ma il cambiamento avrà conseguenze significative anche nel settore privato, in particolare nelle figure a non elevata specializzazione. Se l’innovazione è foriera di grandi benefici per l’umanità, è tuttavia doveroso notare che i vantaggi del progresso tecnologico non saranno equamente distribuiti – soprattutto nelle prime fasi – ed è responsabilità dei Governi assicurarne un’equa redistribuzione.
Il panorama italiano: il problema del ricambio
Per controbattere la combinazione fra ricambio generazionale, effetti postumi della crisi e disruption è pertanto indispensabile che nascano – e siano poi capaci di crescere – nuove imprese.
Credo che sia la grande sfida che abbiamo davanti, e che le università possano e debbano giocare un ruolo fondamentale.
Umberto Bertelè – Presidente della School of Management del Politecnico di Milano e professore ordinario di Strategia e sistemi di pianificazione – autore di “Strategia” (Egea, 2013)
* Dalla prefazione di Umberto Bertelè alla versione italiana del libro ”Big Bang Disruption. Strategy in the Age of Devastating Innovation” di Lawrence Downes e Paul Nunes, 2013