SENTIERI DI CARRIERA E REWARD - La rivoluzione democratica del people development
LA DIGITAL TRANSFORMATION COME CAMBIAMENTO CULTURALE
Si parla sempre di più di rivoluzione digitale e finalmente di Digital HR, ma cosa significa realmente?
Quando lo chiedono a me, rispondo che ci sono ancora tanti pregiudizi e false convinzioni da superare in materia.
Per me “digital HR” non significa, ad esempio, utilizzare tecnologie ed applicarle ai processi HR tradizionali per renderli semplicemente più efficaci, efficienti, anche se questo sicuramente è un valore. Non significa fare solo attraction con i social o applicare l’AI al recruiting.
Non significa diventare solo “paperless”, anche se per molte aziende è una vittoria, né lavorare da “da remoto” grazie al telelavoro (confuso con lo smart working, che è cosa ben più profonda come noto ai suoi esperti). C’è molto di più.
Si tratta di una rivoluzione culturale, in verità, che porta ad adottare approcci e “filosofie” figlie di un contesto tipicamente rappresentato dalle aziende digitali, agili ed innovative, prima che i tools per realizzare questo cambiamento, che sono più che altro “fattori abilitanti”.
Pensando al business digitale ci rendiamo conto che, in fondo, dietro alle applicazioni più utilizzate, da Spotify a Twitter a Deliveroo, parliamo alla fine di centralità del cliente (delle persone), da cui derivano velocità, semplicità e scalabilità dei servizi, fino ad arrivare al nocciolo della questione: approccio data driven che abilità una inedita customer experience all’ennesima potenza.
Cosa può significare tutto questo in ambito HR?
Significa prima di tutto mettere al centro il dipendente (la persona) per ricostruire la sua “employee experience” e abilitare nuove esperienze di lavoro (che sono poi di vita).
Significa uscire dalla torre d’avorio dei nostri processi e concentrarsi sulle persone: coinvolgendole, includendole, ascoltandole e provando a supportarle realmente.
Già scontato?
A guardare tante policy, burocrazia e una certa cultura manageriale che ancora infesta tante aziende in Italia e non solo, direi di no.
LA GROWTH EXPERIENCE
Come tutto questo si inserisce nel quadro delle strategie di people development, un universo che connette nella mia visione il performance management alla valutazione delle persone, il learning a tutti i percorsi di crescita, fino a toccare compensation e reward?
Partiamo dal concetto di crescita.
La crescita continua è una “bazzword”, prima di tutto del business, proprio a partire dal mondo delle startup, dal mito della scalabilità, del “crescere comunque più possibile e prima possibile”, a volte a discapito della sostenibilità finanziaria stessa (sperando di essere poi acquisiti da un colosso che al momento giusto “ti salverà”) che sta mostrando i suoi limiti, quindi è meglio non invocarla e utilizzarla come un concetto assoluto e sempre positivo a prescindere.
Nonostante questo, la crescita, parlando di persone in azienda, è probabilmente il topic centrale di oggi.
Le nuove generazioni (Z in particolare) sentono e chiedono a gran voce di poter crescere continuamente, in ogni modo e in ogni direzione, spesso dimostrando di avere “poca pazienza” e per questo vengono persino criticate.
La realtà è che queste persone sono semplicemente più proattive, ambiziose e al passo di un mondo che cambia continuamente, velocemente e in modo imprevedibile, mentre tante aziende (e le generazioni precedenti) non riescono a farlo altrettanto bene.
Il “giovane” di oggi ti chiede ogni anno un ruolo nuovo, un progetto nuovo, una responsabilità in più, un team da coordinare, un paese diverso in cui trasferirsi e così via.
E se non può ottenerlo? Più facilmente che in passato, se ne va altrove, in particolare se è considerato un talento prezioso in un contesto di competenze scarse sul mercato (parlo per esperienza diretta del mercato delle digital skills in particolare).
Questa è la realtà con cui faremo sempre più i conti. E non parliamo, come evidente, solo di poter avere una carriera verticale in senso tradizionale o di ottenere il job title da manager, che piace tanto sfoggiare su Linkedin.
Parliamo di crescita intesa come realizzazione di sé in quanto professionisti e persone: come “arricchimento continuo a tutto tondo”.
Ecco allora che la famosa “guerra dei talenti” si baserà sempre di più, a mio avviso, sulla capacità di offrire una “growth experience” a 360° alle persone.
UN FUTURO TUTTO DA INVENTARE
Detto questo, alla luce di tale scenario, cosa ci interessa fare realmente?
Ci interessa promuovere continuamente le persone? Accontentarle quando si lamentano dello stipendio? Dare un piccolo bonus come contentino per i risultati annuali sperando che aumenti anche la produttività?
Perché se è così, ci illudiamo.
Credo che il nostro sforzo sia quello di abilitare le persone ad una crescita reale che porti soddisfazione personale ed engagement, da cui deriveranno benessere, clima aziendale positivo, impatto sul business (perché si tratta di un circolo virtuoso).
Mi riferisco alle leve della motivazione sostanziale delle persone: non sono i soldi, ma “Autonomy, Mastery and Purpose”, come ci ha insegnato Daniel Pink.
Per andare in questa direzione non vi è una sola strada e mi piace condividere idee e spunti di riflessione, perché non credo certo di avere la soluzione.
Una prima idea è cercare di allargare e “democratizzare” il concetto di development stesso, per passare all’ottica del “codesign” tanto cara agli UX designer: alla costruzione di un nuovo percorso condiviso tra persona ed azienda.
E’ finita l’era degli “eletti”, scelti e guidati dall’alto come i superuomini / le superdonne che ci porteranno alla vittoria ricoperti di oneri ed onori crescenti.
Siamo entrati nell’era del teamwork, dove si vince o si perde tutti assieme, dove si cresce o si muore tutti assieme, dove si condividono competenze e conoscenze e si distribuiscono i successi e le sconfitte equamente, in modo partecipato.
Mettiamo allora tutti (idealmente) in grado di costruire il proprio percorso di crescita in prima persona, sia individualmente sia (e soprattutto) come parte di un team:
-Aiutiamo le persone a scoprire il loro purpose (il loro “scopo nella vita”), come fanno aziende come Unilever.
-Strutturiamo obiettivi di business e di performance di team su cui misurarsi, includendole nella conversazione strategica dell’azienda e accettando le spinte che vengono anche dal basso, come puntano a fare gli OKR, strumento reso famoso da Google.
-Lavoriamo sulla valutazione continua delle persone, attraverso peer2peer feedback e meccanismi di recognition a 360°, che portino in seguito alla ridefinizione continua del percorso di sviluppo individuale, di cui è la persona (ogni persona) il protagonista e il vero responsabile, abilitato e sostenuto dal “learning ecosystem” fatto di tool, contenuti e risorse umane che l’azienda le costruisce attorno.
-Diamo quante più possibilità a tutti di bilanciamento ed integrazione vita-lavoro, di flessibilità nel gestire l’esperienza lavorativa quotidiana dedicandosi alle proprie passioni e di ridefinizione di ruolo (es. job crafting), di imparare continuamente attraverso spostamenti interni, progetti speciali e di open innovation, di sfruttare knowledge sharing, mentoring, reverse mentoring, coaching ecc.
Solo successivamente avrà ancora senso prevedere percorsi di carriera più definiti per le posizioni chiave del nostro business ed eventualmente lavorare su gruppi di talenti specifici ed altro ancora, perché sarà “qualcosa in più” che stiamo offrendo, non “l’unica via per crescere”.
QUALE REWARD?
Chiudo dicendo che se è vero che i soldi sono ancora importanti, questi sono ormai come noto un fattore igienico. Non pensiamo di aver risolto tutto con il nostro lavoro di benchmark retributivo sul mercato, di pesatura dei ruoli (in crisi oltretutto, perché sempre più fluidi e sfuggenti), salary policy, livelli e fasce di compensation.
Questa è solo la base che ci mette al riparo dalle iniquità.
E sta anche finendo (spero) l’epoca in cui è scontato che un manager guadagni sempre di più di un individual contributor eccellente, perché tutti i ruoli in azienda hanno valore.
“Tolti i soldi dal tavolo”, come si dice, il reward materiale (che è poi la leva motivazionale estrinseca) non è più il centro della questione.
Lo è molto di più quello immateriale e per certi versi impalpabile, che va dal benessere psicofisico alla realizzazione personale, alla crescita stessa, al “sentire di poter fare la differenza”.
E se proprio vogliamo investire su benefit, bonus e premi, meglio allora farlo non con variabili individuali e scelte top-down una volta l’anno, ma con “micro-rewards” piccoli e frequenti, basati magari sul continuous feedback peer2peer, utili a celebrare non solo il successo individuale ma ancora una volta quello di gruppo. In modo meritocratico e paritario, cioè senza creare inutili fonti di status symbol che è ora di lasciare alle nostre spalle.
Così creeremo di nuovo soddisfazione, engagement, apprendimento e, quindi, crescita come azienda e come persone. Assieme.
People Learning&Development Lead - Musement