ATTUALITÀ DEL PRINCIPIO DI IRRIDUCIBILITÀ DELLA RETRIBUZIONE ALLA LUCE DELLE RECENTI RIFORME
L’attenzione mostrata di recente dal Legislatore Italiano al tema delle politiche di welfare aziendale (da ultimo con la Legge Stabilità 2017 e con il decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017) conferma l’interesse sempre crescente nei confronti delle politiche retributive cd. di «Total Reward» (anche note come «TR»). Il semplice contro-valore monetario della prestazione lavorativa e la logica del minimo salariale vengono sempre di più avvertiti come insufficienti a remunerare in maniera soddisfacente il dipendente. Si fa strada una visione più ampia, che integra all’interno della retribuzione un ampio ventaglio di fringe benefit disciplinati da piani di welfare, che tiene conto del bisogno di riconoscimento della performance individuale e del valore aggiunto che questo costituisce per l’azienda, nonché del necessità di un work-life balance che consenta al dipendente di mantenere un equilibrio tra la propria vita lavorativa e individuale (in tal senso, si veda il recentissimo decreto interministeriale del 14 settembre 2017 che prevede sgravi contributivi a fronte delle misure di conciliazione disciplinate tramite la contrattazione collettiva aziendale e di secondo livello).
Con specifico riferimento al tema dei piani di welfare e dei benefit, in questa sede è sufficiente ricordare le recenti modifiche apportate all’art. 51 del T.U.I.R. con l’allargamento del paniere di beni e servizi erogabili ai dipendenti tramite voucher, con esenzione totale da imposizione fiscale e contributiva e, a certe condizioni, con integrale deducibilità dal reddito d’impresa ai fini del pagamento dell’IRAP. O ancora, si pensi alla tassazione agevolata in materia di premi di risultato (seppure nella cornice stabilita dalla contrattazione aziendale o di secondo livello) e alla possibilità riconosciuta al lavoratore di convertire i corrispondenti importi in beni e servizi anche erogati tramite voucher (peraltro con alcuni vantaggi significativi, quale ad esempio la possibilità di cumulare il limite di stabilito per l’esenzione del premio con quello previsto per l’esenzione dei contributi di previdenza complementare pagati al dipendente).
In un contesto di questo genere, qual è il ruolo di una garanzia storica e apparentemente inattaccabile quale il principio di irriducibilità della retribuzione e come questo si applica ai fringe-benefit?
Anzitutto, com’è noto può essere definito fringe-benefit solo il bene o il servizio che non viene fornito in via esclusiva per lo svolgimento della prestazione lavorativa: il telefono cellulare o il tablet che non può essere usato anche per uso privato non costituisce in nessun modo un benefit. Sotto diverso profilo, costituisce pacificamente un fringe-benefit ma non entra a far parte del nucleo protetto dal principio di irriducibilità quella parte della retribuzione che remunera particolari modalità di esecuzione e che ha la funzione di compensare un maggior disagio dovuto a circostanze estrinseche (tipicamente, nel caso dello svolgimento all’estero della prestazione lavorativa). Al venir meno delle ragioni oggettive che ne giustificano la corresponsione, infatti, questi emolumenti possono essere revocati unilateralmente dal datore, senza che (nel caso dei fringe-benefit) il lavoratore possa eventualmente pretendere alcuna forma di compensazione.
La questione, secondo la giurisprudenza, è se il fringe-benefit rientri o meno all’interno della «retribuzione fondamentale», quel nucleo che va a remunerare le qualità essenziali e intrinseche della prestazione di lavoro e che, come tale, è protetto dal principio di irriducibilità desunto dall’art. 2103 c.c. In estrema sintesi, la retribuzione pattuita al momento dell’assunzione non può mai essere revocata o modificata unilateralmente dal datore di lavoro. Viceversa, quanto alla possibilità del lavoratore di disporre della propria retribuzione e quindi, in concreto, quanto alla legittimità di eventuali accordi volti ad una riduzione consensuale della retribuzione, la norma di riferimento è l’art. 2103 c.c.. Fino al 2015, era sanzionato a pena di nullità l’accordo con cui veniva ridotta consensualmente la retribuzione concordata al momento dell’assunzione, anche se la giurisprudenza già ammetteva accordi di riduzione della retribuzione che fossero finalizzati alla salvaguardia del posto di lavoro (fermo ovviamente il limite del minimo contrattuale considerato totalmente intangibile in considerazione della funzione di attuazione del principio costituzionale della retribuzione adeguata e sufficiente).
Il Jobs Act ha introdotto per la prima volta la facoltà di derogare tale limite, purché gli accordi vengano stipulati in sede sindacale protetta.
L’orientamento consolidato dei Giudici di merito, formatosi essenzialmente con riferimento al tema dall’auto aziendale per uso promiscuo, è quindi il seguente: la revocabilità unilaterale dei fringe-benefit da parte del datore è vietata, salvo che lo stesso vada a remunerare modalità non essenziali/estrinseche della retribuzione; viceversa, sono sicuramente possibili accordi volti alla modifica delle condizioni economiche inizialmente concordate al momento dell’assunzione, purché stipulati in sede sindacale protetta.
Ciò premesso, è interessante riportare alcuni passaggi di una giurisprudenza molto recente, secondo cui la revoca del fringe-benefit in un certo senso fuoriesce dall’ambito di protezione del principio di irriducibilità. Secondo tale orientamento, «la retribuzione … deve essere considerata nella sua globalità: quella che non può essere ridotta è la retribuzione base nella sua totalità, non le sue singole componenti» (Tribunale di Milano – Sez. Lavoro, 6 maggio 2014, est. Bertoli). Q
Questo comporta che «il principio di irriducibilità della retribuzione non impedisce affatto che essa venga articolata in maniera diversa nelle sue diverse componenti e neppure che una di esse venga soppressa, se il risultato globale utile per il dipendente non è inferiore: la diminuzione, o anche la soppressione di un singola voce retributiva (che può essere effettuata anche trasferendone il contenuto economico in un’altra voce rimasta o inserita ex novo) non comporta necessariamente la riduzione della retribuzione complessiva».
In altre parole, non violerebbe il principio di irriducibilità una modifica qualitativa della retribuzione quale la revoca di un certo bene o servizio, anche se rientrante in astratto nella nozione di retribuzione fondamentale, laddove il «risultato globale utile» (cioè il «contenuto economico» complessivo) rimanga immutato, ad esempio perché il bene o servizio viene sostituito con un altro o compensato con il suo controvalore economico.
È iscritto all’albo degli avvocati dal 2013. Collabora con lo studio Lettieri&Tanca dall’ottobre 2013. L'avv. Trombetta parla e lavora in inglese.