Performance management: Tutto parte dagli obbiettivi
In un recente studio sui sistemi di valutazione delle prestazioni fatto da Job Pricing insieme alla Fondazione Marco Biagi dell’Università di Modena e Reggio Emilia (Link al report) un risultato interessante e non del tutto scontato è stato quello per cui la quasi totalità dei lavoratori (94% degli intervistati), che sono occupati in aziende che non hanno sistemi di misurazione e valutazione della performance, vorrebbero averne uno.
L’idea che vi sia un’avversione alla valutazione, dunque, sembrerebbe in buona misura un pregiudizio legato a una cultura del lavoro (e sindacale) che si potrebbe a buon diritto definire “datata”.
Se la valutazione non è un tabù per i lavoratori, ed i manager la ritengono uno strumento utile per governare la performance dei propri collaboratori (la misurazione delle performance è al primo posto per il 62% delle aziende intervistate), come mai da qualche tempo esiste una diffusa critica dei sistemi di valutazione della performance in uso nelle aziende?
In generale le critiche al modello “classico” di valutazione della prestazione (quello per intenderci basato su un ciclo annuale obbiettivi-valutazione-feedback) riguardano almeno tre livelli:
- La durata del ciclo di performance management: nella valutazione annuale esiste un gap temporale troppo ampio fra il momento della prestazione e quello della sua valutazione, che così viene percepita come meno oggettiva e pertanto meno accettabile;
- Il meccanismo di feedback: la restituzione annuale di fatto rende il feedback un giudizio ex-post (non a caso assimilato in alcune realtà ad una “pagella”), che non può incidere sull’effettivo indirizzamento e miglioramento della performance;
- La struttura top-down del processo di valutazione: la valutazione è spesso un “affare” del capo e dei suoi collaboratori, rispetto al quale, anche quando siano presenti, i meccanismi di calibrazione che garantiscono l’omogeneità e l’equità delle valutazioni hanno uno scarso impatto. Di qui la percezione che alla fine il PM sia una sovrastruttura burocratica, che serve solo a giustificare meccanismi di valutazione in fondo arbitrari e per nulla meritocratici. In questo senso la stessa determinazione degli obbiettivi individuali, che sono il parametro base per misurare la performance, risulta troppo spesso limitata a logiche puramente funzionali, in cui ogni “silos” organizzativo ragiona in modo indipendente rispetto agli obbiettivi generali dell’azienda.
Rispetto a quest’ultimo punto, ed in particolare alla questione del goal setting, vorremmo condividere alcune considerazioni interessanti emerse sia dal nostro lavoro di Osservatorio, che dall’attività di consulenza aziendale nella strutturazione dei sistemi di PM.
In primo luogo, se i sistemi di PM vogliono essere strumenti di governo e indirizzo della prestazione, piuttosto che semplici processi di valutazione, è evidente che nella costruzione degli obbiettivi è assolutamente indispensabile superare i silos funzionali. Il processo di definizione dei target deve essere un processo che “parte dall’alto” e “scende a cascata” dal vertice aziendale fino ai singoli individui, tagliando trasversalmente l’organizzazione. Gli obbiettivi individuali, in quest’ottica, sono i mattoni di una costruzione più vasta, che devono contribuire a rendere solida. Solo questa logica può permettere, infatti, un framework di riferimento in cui ogni individuo diventa “contributor” rispetto allo “scopo generale” dell’organizzazione.
In quest’ottica all’aspetto funzionale dell’obbiettivo si associa anche un aspetto di significato, che è fondamentale se si pensa come la percezione di “importanza” e di “senso” del proprio lavoro, ci dicono psicologi e neuroscienziati, siano alla base della motivazione individuale e quindi dello “sforzo” necessario per conseguire i risultati attesi. Paradossalmente è proprio nell’assegnazione degli obbiettivi individuali, inserendoli (e spiegandoli) entro uno schema generale più ampio, che è possibile andare oltre in modo concreto alle barriere che impediscono di vedere un’organizzazione secondo una logica di processo piuttosto che funzionale (la quale come noto è assolutamente meno efficace a livello operativo).
Un secondo aspetto molto importante è quello legato al coinvolgimento delle persone nella costruzione degli obbiettivi. Questi ultimi, infatti, sono tanto più motivanti se chi se li vede assegnare ritiene di avere una “leva” per raggiungerli. E quale miglior modo che coinvolgere gli individui nella definizione dei loro target secondo una logica di responsabilizzazione (e perché no, sfruttando il principio di coerenza che, come ricorda Robert Cialdini, è una delle regole base della persuasione)? Non parliamo di “democratizzare” il goal setting, ma di chiedere un contributo (ragionato), rispetto al quale ai manager di linea (e all’HR) compete di essere i facilitatori, i coordinatori e le guide.
Un terzo aspetto, noto tanto da essere inflazionato nei corsi di formazione, ma ampiamente disatteso nella pratica, è l’importanza di definire obbiettivi semplici, misurabili (cioè riferibili a dati, fatti, tempi) e con un chiaro riferimento temporale. Si sa che, soprattutto rispetto a obbiettivi complessi, la c.d. “goal diluition” (lo spezzettamento di un obbiettivo in più target da raggiungere) rende molto più efficace e motivante un obbiettivo, ma a condizione che i target di riferimento siano specifici, chiari e facilmente raffrontabili con i risultati. Questo approccio, tuttavia, rende il goal setting molto più oneroso per cui molto spesso le aziende – anche essendone consapevoli – prendono scorciatoie, che però alla fine compromettono il sistema di performance management e la sua efficacia. A quel punto il rischio che a valutazione sia qualcosa di burocratico, che vuole “HR”, piuttosto che un pilastro del management aziendale è altissimo.
Giova ricordare, infine, che se nell’ambito del processo di performance management, la definizione e assegnazione degli obbiettivi, sono attività finalizzate a direzionare la motivazione e gli sforzi dell’individuo, rispetto a ciò l’eventuale previsione di un premio economico (o di altra natura) è un rinforzo della motivazione stessa, ma non la determina. Gli incentivi, in quanto “condizionamenti operanti” di natura “estrinseca” funzionano solo se esiste una motivazione intrinseca nella persona a raggiungere un determinato target… e quest’ultima, come dimostrato da Maslow, McCleland e da molti altri in seguito, nasce solo dalla condivisione dello scopo, dal senso di appartenenza e da ultimo – ma più importante – dal fatto che quell’obbiettivo sia percepito come importante per la realizzazione personale. Tutte cose che vanno oltre il bastone e la carota.
È CEO di JobPricing da giugno 2016 e segue inoltre in prima persona progetti di consulenza in ambito Total Reward, Performance Management e Leadership. Vanta una precedente esperienza di oltre quindici anni come HR & Manager e HR Director in contesti multinazionali, sia nel settore dei servizi che nell’industria.