Ma quanto contano i soldi per essere soddisfatti sul lavoro?
Nel suo libro “Payoff”, Dan Ariely, professore di economia comportamentale alla Duke University, descrive un esperimento on-the-job molto interessante, anche per la rarità di ricerche di questo tipo condotte direttamente sui luoghi di lavoro.
Il contesto è quello di uno stabilimento Intel e di una linea di assemblaggio di microchip gestita con un sistema di turni settimanali a scorrimento, per cui a quattro giorni di lavoro seguono quattro giorni di riposo. La direzione aziendale, al fine di aumentare la motivazione del personale e quindi incrementare le produttività, ha introdotto un particolare sistema d’incentivazione: per il primo giorno di lavoro alla ripresa del ciclo dopo il riposo, viene erogato un bonus di circa 30 dollari extra a fronte del raggiungimento dei target individuali di produzione giornaliera. Il premio viene liquidato direttamente alla fine del turno. L’idea alla base di questo meccanismo di incentivazione, spiega Ariely, è quella di stimolare i lavoratori e di dare loro un “extra boost” alla ripresa del lavoro, presumendo che dopo quattro giorni di riposo ci possano essere problemi “a carburare”. Il principio insomma è quello ben noto: vuoi persone più motivate? Pagale di più.
Per Ariely ed il suo team il contesto è apparso ovviamente molto stimolante per verificare il rapporto fra incentivi economici e motivazione. Così grazie alla disponibilità, inconsueta, ma illuminata, dell’HR di Intel, l’accademico ha proposto questo esperimento: dividere il personale in quattro gruppi, dei quali il primo incentivato con il bonus monetario già in uso; il secondo incentivato con un voucher per la pizza a tutta la famiglia; il terzo gratificato con un feedback positivo per iscritto da parte del capo; ed infine il quarto senza incentivi o feedback. Tutti i gruppi ad eccezione dell’ultimo dovevano essere preventivamente informati del tipo di trattamento loro riservato.
Ebbene che cosa ne è emerso? Per farla breve (se volete saperne di più meglio l’originale) questi sono stati i risultati principali dell’esperimento:
- Tutti i gruppi con incentivi, monetari e non, hanno performato decisamente meglio nel 1° giorno di lavoro rispetto al gruppo senza incentivi o feedback.
- La tipologia di incentivo (soldi, pizza, feedback positivo) non ha generato grandi differenze in termini di prestazione nel 1° giorno di lavoro, anche se i lavoratori incentivati con feedback positivo e buono per la pizza hanno avuto prestazioni leggermente superiori a quelli incentivati economicamente;
- Nei giorni successivi al primo la performance del gruppo soggetto a bonus monetario è decaduta in modo significativo fino ad allinearsi con quella del quarto gruppo nell’ultimo giorno del ciclo di lavoro (quello in condizione di “controllo” senza incentivi).
- I gruppi con incentivazione non monetaria (pizza e feedback positivo) hanno avuto pure un decadimento della prestazione dopo il primo giorno, ma più lento di quello del gruppo con incentivi economici;
- Nel complesso, considerando l’intero ciclo di lavoro, i gruppi con ricompense non monetarie hanno performato meglio di quello con ricompensa monetaria ed in particolare i più performanti sono risultati i lavoratori che avevano ricevuto i complimenti scritti del capo.
L’aspetto molto interessante dell’esperimento alla Intel è che ha messo in evidenza empiricamente una teoria cara a tutti gli economisti comportamentali: gli incentivi che si concentrano sulla motivazione intrinseca sono più potenti. Non solo, la performance di chi riceve un bonus monetario tende a calare più velocemente dopo l’erogazione dell’incentivo, poiché se è vero che quel tipo di incentivo genera motivazione nel breve termine, quella stessa motivazione decade subito dopo, un po’ come se tutto quanto “non è pagato” diventasse all’improvviso meno importante.
Il punto, dice Ariely, è che gli schemi di incentivazione monetaria effettuano uno scambio sbagliato per lo meno nel lungo termine: una dimensione numerico contabile, il denaro, contro una dimensione intangibile e relazionale, il commitment.
Un argomento non banale, quest’ultimo, per tutti coloro che si occupano di progettare e gestire politiche retributive e sistemi incentivanti, poiché, volendolo portare alle estreme conseguenze, significherebbe assumere per lo meno tre criteri base, che di norma non sono così diffusi nelle aziende:
i) non sono i soldi a generare motivazione e produttività ed anzi, se non utilizzati in modo corretto, possono perfino essere controproducenti;
ii) un utilizzo eccessivo dell’incentivazione monetaria può “drogare” il rapporto di lavoro, nel senso di focalizzare l’attenzione delle persone solo sulle prestazioni soggette a premio (e facendo dimenticare che, comunque, il contratto di lavoro è già per sua natura un rapporto basato una prestazione a fronte di un corrispettivo);
iii) i sistemi retributivi andrebbero sempre più approcciati nell’ottica di sistemi di remunerazione “olistici”, realizzati con un attento mix di elementi economici tangibili (retribuzione, benefit, welfare) e intangibili (relazioni, leadership, ambiente di lavoro, worklife balance, formazione e sviluppo professionale). Non si tratta, però, di tagliare i budget del personale – anche se è probabile che si possano ottenere risultati migliori in termini di motivazione, perfino risparmiando un po’ – ma di ripensare le modalità di allocare le risorse disponibili.
Da questa prospettiva, preme sottolineare come la recente “moda” del welfare non sia una risposta al tema dell’accrescimento della motivazione, come spesso viene presentata, anzi in un certo senso potrebbe anche accentuare le problematiche messe in evidenza nel caso dell’Intel: la condivisione di benefici fiscali per aumentare, a parità di spesa, il potere di acquisto dei lavoratori grazie al welafare aziendale, seppure molto apprezzabile, rientra comunque nel campo dei benefici tangibili di tipo economico-monetario e quindi, in ultima istanza, riporta all’equazione denaro = motivazione. Insomma, siamo sempre nel campo di quelli che gli economisti comportamentali e gli psicologi chiamano “motivatori estrinseci”. Ma, ci dice Ariely, è proprio questo approccio che andrebbe superato.
Gli ultimi dati del Salary Satisfaction del nostro Osservatorio, del resto, confermano che sono gli stessi lavoratori a vederla in questo modo.
Chiedendo a oltre 2.000 lavoratori italiani se siano o meno soddisfatti della loro retribuzione ecco, in estrema sintesi, che cosa è emerso:
- Il livello di soddisfazione in generale rispetto alla retribuzione è molto basso (4,1 su 10)
- La soddisfazione è strettamente correlata a equità, merito, competitività e (ebbene sì!) rapporto fra prestazione e ricompense
- Si sceglie un posto per la retribuzione (essenzialmente quella fissa), ma poi si resta perché ci sono relazioni interpersonali e con i capi buone, perché c’è equilibrio fra tempo di lavoro e tempo di vita, perché il lavoro che si svolge è stimolante e perché si lavora in un contesto (anche fisico) piacevole
- Si cambia cercando un miglioramento dello stipendio (se questo è percepito come iniquo o disallineato rispetto al mercato) o una possibilità di sviluppo professionale in termini di formazione e carriera.
Molto interessante, poi, è la risposta che i lavoratori hanno fornito alla domanda: “Per cosa saresti disponibile ad una significativa riduzione del tuo stipendio fisso (1 mensilità)?”.
Ebbene, circa 3 lavoratori su 4 si sono detti disponibili a scambiare la retribuzione fissa con una contropartita, che si tratti di formazione, sistemi di incentivazione o essere assunti “dall’azienda dei propri sogni” …
Insomma, pare proprio che l’esperimento di Intel abbia colto nel segno anche per quello che ci riguarda.
Scarica il Salary Satisfaction 2019
È CEO di JobPricing da giugno 2016 e segue inoltre in prima persona progetti di consulenza in ambito Total Reward, Performance Management e Leadership. Vanta una precedente esperienza di oltre quindici anni come HR & Manager e HR Director in contesti multinazionali, sia nel settore dei servizi che nell’industria.