Tra le attività più complesse che sono richieste alle risorse umane in sede di redazione del budget riguardante i costi del personale, vi è certamente quella di definire i costi sottesi alle operazioni di ristrutturazione e riduzione dell’organico aziendale per renderlo adeguato alle mutevoli esigenze del mercato, sia nei casi di riduzione del fatturato sia nei casi in cui sia richiesto un forte rinnovamento di competenze professionali.
La definizione del budget in questi casi sconta una valutazione delle effettive necessità aziendali, dei costi e benefici connessi alla chiusura del rapporto, anche in relazione a possibili soluzioni alternative alla chiusura tout court dello stesso, e soprattutto in relazione alle diverse modalità con cui ciascuna azienda si avvale delle prestazioni di lavoro altrui (assumendo lavoratori subordinati ovvero ingaggiando lavoratori autonomi o collaboratori coordinati e continuativi ovvero appaltando a realtà esterne di parte del “processo produttivo”).
I. Nel caso in cui si debbano quantificare i costi di risoluzione di un lavoratore subordinato, una volta individuate le risorse in esubero ed esclusa la possibilità di una ricollocazione anche in mansioni inferiori, le fasi in cui si compone il procedimento sono le seguenti:
(i) quantificazione di tutte le somme che sono comunque dovute al lavoratore (competenze di fine rapporto e TFR ove esista una quota ancora accantonata in azienda) e individuazione dell’aliquota del TFR, dato particolarmente significativo posto che essa costituisce il principale parametro fiscale da utilizzare durante l’eventuale negoziazione;
(ii) quantificazione del budget da appostare per l’eventuale negoziazione/contenzioso. Per far ciò è necessario preliminarmente individuare la normativa di riferimento nel caso in cui il licenziamento fosse ritenuto illegittimo. Per brevità, in questa sede considereremo solo le aziende con più di 15 dipendenti (presso l’unità locale o presso il medesimo comune e, in ogni caso, con più di 60 dipendenti complessivamente) e prenderemo in considerazione sia la normativa applicabile ai lavoratori già assunti alla data del 6 marzo 2015 e sia la normativa applicabile ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015.
In caso di dipendenti già in forza in azienda alla data del 6 marzo 2015, occorre distinguere il caso in cui si tratti di licenziamento individuale (anche plurimo) ovvero di licenziamento collettivo (ossia almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 gg).
Senza entrare in questa sede nelle rilevanti differenze procedurali, in entrambi i casi la tutela riconosciuta al lavoratore varia a seconda dei vizi che possono inficiare la legittimità del licenziamento e segnatamente:
a) reintegrazione del lavoratore e risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute sino ad un massimo di 12 mensilità di retribuzione globale di fatto (comprensiva quindi dei ratei di mensilità supplementari, eventuali elementi variabili, benefit). Rilevante poi ai fini della definizione del budget è la circostanza che una volta reintegrato il lavoratore possa decidere se rientrare a lavoro ovvero scegliere il riconoscimento di un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità globali di fatto.
Questa tutela è accordata nel licenziamento individuale nei casi di manifesta insussistenza del motivo posto a fondamento del licenziamento e, nel licenziamento collettivo, nel caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero. In definitiva, può ormai ritenersi che il costo massimo per un’azienda sia quantificabile in 27 mensilità, oltre al versamento di tutti i contributi sino alla reintegra.
b) indennità risarcitoria da 12 a 24 mensilità di retribuzione globale di fatto (senza contributi). Questa tutela è accordata, nel licenziamento individuale, per altri vizi sostanziali meno gravi quali, ad esempio, violazione dei principi di correttezza e buona fede, inadeguatezza del motivo a giustificare il licenziamento, violazione dell’obbligo di ricollocare il lavoratore in altre posizioni libere. Nel licenziamento collettivo è invece accordata per la violazione delle regole della procedura prevista dalla legge.
c) Indennità risarcitoria da 6 a 12 mesi di retribuzione globale di fatto. Questa tutela è accordata solo nei licenziamenti individuali per vizi che riguardano la procedura.
Per i dipendenti assunti dal 7 marzo 2015, sia in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia in caso di licenziamento collettivo, il lavoratore subordinato ha diritto ad un’indennità risarcitoria (senza contributi) pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio e, comunque, in misura non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.
Fuori dai casi di reintegra, nella redazione del budget occorrerà considerare che il datore di lavoro deve riconoscere o il periodo di preavviso ovvero (come normalmente accade) l’indennità sostitutiva del preavviso.
Una volta precisato il perimetro delle ipotetiche passività connesse con un licenziamento dichiarato illegittimo, occorre procedere alla quantificazione del budget da assegnare alla singola posizione.
Tale valutazione è influenzata, anzitutto, dalla definizione del rischio di causa in relazione alle diverse tipologie di licenziamento e di vizio che potrebbe essere contestato e, in secondo luogo, dal tempo che si vuole impegnare per raggiungere un risultato definitivo.
Nel primo aspetto certamente possono entrare in gioco valutazioni più sofisticate che tengono conto ad esempio della diversità di orientamenti giurisprudenziali seguiti a livello locale dal tribunale che sarebbe competente e dalla prassi seguita dai giudici nella conduzione del tentativo di conciliazione in sede di prima udienza.
In via di prima approssimazione si può ritenere corretto un approccio che muova dalla previsione di un incentivo pari all’indennità risarcitoria di cui al precedente punto b) nel minimo (ossia le 12 mensilità). Da questa somma si potrà scendere (o eventualmente salire) secondo i criteri appena esaminati.
Va, infine, considerato che per i lavoratori già assunti alla data del 6 marzo 2015, normalmente l’esistenza della procedura relativa al tentativo di conciliazione avanti alla Direzione Territoriale del Lavoro territorialmente competente permette di tentare di ottimizzare i costi connessi alla cessazione del rapporto: infatti, la disciplina che prevede tale procedura prevede che il lavoratore non perde il diritto alla NASpi anche in caso di risoluzione consensuale del rapporto (questo è l’unico caso in cui la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro non impedisce l’accesso a tali forme di ammortizzatore sociale). In questo senso, il costo aziendale del preavviso (quanto meno della parte residua) potrebbe essere offerta a titolo di incentivazione garantendo un maggior introito al dipendente (il quale, tuttavia, non si vedrebbe versare alcun contributo previdenziale al riguardo ma la perdita sarebbe parzialmente compensata dai contributi figurativi della NASPI).
Decisamente più semplice è la redazione del budget per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi, sia perché il calcolo delle mensilità da corrispondere avviene in misura secca, sia perché la riforma del 2015 incentiva la transazione defiscalizzando le somme pagate in sede conciliativa (purché ciò avvenga nei modi e nei termini previsti dalla legge). Ovviamente sul presupposto che nel contratto individuale non siano previste delle tutele integrative di quelle di legge.
II. Nel caso in cui si debbano quantificare i costi di risoluzione di un lavoratore autonomo o di collaboratore coordinato e continuativo, il processo di valutazione presuppone alcune analisi preventive circa l’eventuale contestabilità della reale natura dei citati rapporti.
Infatti, nel caso in cui nell’ambito di un rapporto di lavoro autonomo emergano i tratti che la giurisprudenza individua come tipici di un rapporto di lavoro subordinato, oppure, nell’ambito di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa possano rinvenirsi indici in virtù dei quali emerga una eterorganizzazione della prestazione da parte della committente, la valutazione del costo connesso deve tenere in considerazione anche il possibile rischio di una causa volta ad ottenere l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro (e per cui, normalmente, le conseguenze principali sono quelli di una richiesta di pagamento o di accantonamento del trattamento di fine rapporto – calcolato sulla base delle somme percepite annualmente – e di una regolarizzazione contributiva).
A ciò occorrerà poi aggiungere un’ulteriore somma volta a definire la cessazione del rapporto.
Qui la valutazione appare sempre complessa perché occorre anzitutto considerare il carattere temporale del rapporto di collaborazione (tendenzialmente a tempo determinato, anche se residuano ancora casi di collaborazioni a tempo indeterminato) e dunque il fatto che la conversione del rapporto di collaborazione non necessariamente avvenga in un rapporto a tempo indeterminato, con l’ulteriore conseguenza che il recesso non sarà automaticamente qualificato come licenziamento ma semplicemente come recesso anticipato da un contratto a termine.
È evidente che gli scenari che si prospettano appaiono estremamente variegati posto che se esiste la concreta possibilità che il rapporto si converta in un rapporto a tempo indeterminato, occorrerà utilizzare il medesimo processo descritto per il caso di licenziamento di un lavoratore subordinato ed applicando delle percentuali di abbattimento che saranno tanto più elevate quanto più in concreto il rischio di un accertamento del rapporto subordinato sia basso. Ovviamente tutto sarà estremamente semplificato per i rapporti di lavoro autonomo o di collaborazione instaurati dopo il 7 marzo 2015.
Se invece il rapporto, per quanto subordinato, si mantiene nell’area del contratto a termine, il budget per la cessazione non differisce da quello relativo alla cessazione anticipata di valido rapporto di collaborazione a termine dove il collaboratore, nel caso il recesso non sia assistito da giusta causa, potrà percepire al massimo il compenso pattuito sino alla scadenza, detratto quanto eventualmente percepito da rapporti di lavoro sorti successivamente: in questi casi la predisposizione del budget sconta l’individuazione del costo massimo (i compensi sino alla scadenza) a cui si applica una percentuale di abbattimento che andrà individuata attraverso una duplice concorrente valutazione all’esito della quale sarà tanto più elevata quanto più i motivi del recesso anticipato costituiscano un’effettiva giusta causa di risoluzione del rapporto e quanto più è probabile che il collaboratore possa trovare un’altra occupazione entro la fine del contratto.
III. Nel caso in cui si debbano quantificare i costi di risoluzione di un contratto di appalto, nell’ambito del quale era stato esternalizzato una parte del processo produttivo ovvero un servizio, l’analisi preliminare da svolgere riguarda l’eventuale contestabilità dell’appalto stesso. In particolare, per resistere ad eventuali attacchi, occorre che, da un lato, l’appaltatore sia un’impresa dotata di una propria autonoma organizzazione imprenditoriale ed economica e, dall’altro, che nell’esecuzione dell’appalto le direttive e l’organizzazione del lavoro provengano da personale dell’appaltatore e non direttamente da esponenti della committente.
Ove vi sia ragionevole certezza in merito alla tenuta del contratto di appalto non vi sarebbero particolari ragioni per appostare somme a budget ed essere coinvolti nell’eventuale negoziazione tra l’appaltatore e i dipendenti in esubero, se non per il diverso tema della solidarietà che, per quanto oggi attenuata, rappresenta pur sempre un fattore di rischio da considerare a prescindere dalla legittimità dell’appalto per l’ipotesi in cui la crisi dell’appaltatore comporti l’inadempimento dell’obbligazione retributiva.
In caso contrario, la redazione del budget dovrebbe tenere conto anche del possibile rischio di causa relativo all’imputazione diretta del rapporto (e dunque del licenziamento).
È evidente che, al di fuori di situazioni limite, i parametri prima descritti per i lavoratori c.d. diretti subiscono abbattimenti che possono arrivare anche al 70% in proporzione al tasso di effettiva autonomia nell’organizzazione della lavorazione.
Avv. Francesco Tanca
Lettieri & Tanca – Labour Lawyers
L'avv. Francesco Tanca è iscritto all’albo degli avvocati di Milano dal gennaio 2000 ed è abilitato alle giurisdizioni superiori dal 2013. Nell’ottobre 2005 costituisce con l’avv. Mattia Lettieri lo Studio Lettieri&Tanca, boutique specializzata in diritto del lavoro.