Dal 2008 a oggi stiamo assistendo, all’interno delle imprese italiane a un fenomeno molto preoccupante di cui poco si parla: il numero di dirigenti licenziati o pensionati, non sostituiti (a oggi circa 150.000), è in continuo aumento e sfiora ormai il 30% dell’intero ammontare della classe dirigente apicale. Il più delle volte il loro posto è stato preso dai loro collaboratori che, il più delle volte si sono trovati a fare da soli il lavoro di due persone. Dimenticando, per un istante, il peso spesse volte eccessivo di questa sostituzione, occorre notare come le imprese, con questa mossa, abbiano da un lato sollevato improvvisamente il loro bilancio dal costo di una persona costosa, ma al tempo stesso abbiano perso una persona dalla caratura manageriale più significativa di quella posseduta dalla pur brava persona che ha preso il suo posto.
Dall’ultima ricerca Censis «Dal valore delle competenze nuove opportunità per rimettere in moto il lavoro», inoltre, emerge come in questi anni di crisi il 78% delle imprese sia stato costretto a operazioni di ristrutturazione, incidendo anche sul livello e la qualità delle competenze professionali interne, con il rischio, nel 48% dei casi, di far perdere loro anche le proprie capacità distintive core.
Questi due fenomeni, se considerati nel loro insieme, evidenziano come le imprese italiane, dall’inizio della crisi, si siano private di una quota rilevante di competenze tecniche e manageriali, come se queste fossero facilmente riproducibili o acquistabili sul mercato. Il merito che questi professionisti avevano acquisito nel tempo sono stati così spazzati via nell’arco di pochi mesi, rendendo i bilanci sicuramente un poco migliori, ma costringendo nel frattempo le imprese, in prospettiva, a un deficit imprenditoriale e gestionale rilevante.
La professionalità sembra essere percepita come di minor valore, nonostante il contesto sempre più difficile, sia sul versante finanziario, sia su quello commerciale.
Il terzo Rapporto “Generare Classe dirigente” realizzata da Luiss e Fondirigenti ha evidenziato come la classe dirigente abbia perso la sua credibilità, non solo sul versante istituzionale, ma anche nelle organizzazioni. Le imprese stanno sempre più pensando “a breve”, nell’affannoso tentativo di “salvare la pelle”, nella maggioranza dei casi senza però riuscire a esprimere competenze distintive, una visione strategica forte e una buona autorevolezza interna.
Sta venendo meno la capacità della classe dirigente d’impresa di caricarsi sulle spalle i destini dell’azienda di appartenenza, segnando la via da percorrere per uscire dalla crisi.
In molti casi, le nuove nomine sembrano avere beneficiato più del minor costo che non dell’effettivo merito. Forse non a caso nelle imprese non si decide più nulla, nessuno sembra avere il coraggio delle proprie scelte e delle proprie visioni strategiche. Proprio nel momento in cui servirebbe maggiore velocità e presenza sul mercato, la maggioranza delle nostre aziende sembra imballata, incapace di reagire con incisività.
Una classe dirigente aziendale impaurita sta generando una minore qualità del proprio lavoro e di questo scadimento sta soffrendo tutto il nostro sistema produttivo, che non regge il passo con i nostri concorrenti.
Nella maggioranza delle imprese nazionali il clima interno è pessimo, anche quando i conti non sono preoccupanti, anche perché il top management non sempre è riconosciuto al suo interno e riesce ad assumere un ruolo guida effettivo, un’autorevolezza che non può dipendere dalle stellette sulla divisa, ma dal capello grigio e dai risultati positivi raggiunti nell’arena del mercato.
Le imprese nazionali rischiano di dover pagare in prospettiva un caro prezzo per aver preferito il costo al merito. Nel nostro Paese stiamo assistendo a una vera e propria “emergenza” tecnica e manageriale, di cui purtroppo si parla poco, ma che non per questo può essere sottovalutata.
– Paolo Iacci –