Il valore delle soft skill nel prossimo futuro
Una delle riflessioni aperte ed in qualche misura anche inquietanti rispetto al futuro (prossimo) del lavoro è quella sul rapporto fra “uomo” e “macchina”.
Infatti, come evidenziato anche dallo studio del World Economic Forum “The Future of Jobs Survey 2018”, si stima che entro cinque anni, in tutti i settori economici, molti dei lavori che esistono oggi saranno radicalmente trasformati, se non addirittura cancellati, dall’avvento dell’intelligenza artificiale e della robotica avanzata. Un’altra previsione interessante che si può trovare sempre nello stesso studio è quella che riguarda il rapporto tra uomini e macchine nel periodo 2018-2022, destinato a vedere – in termini di ore lavorate – un veloce avanzamento delle seconde sui primi in molti ambiti dell’attività delle imprese, non solo in ambito operativo, ma anche a livello strategico.
A questo si associano poi, ci dicono gli esperti, una serie di mutamenti progressivi ed accelerati che riguarderanno i modelli di lavoro con l’ascesa del lavoro in remoto, lo sviluppo di piattaforme di condivisione del lavoro, il superamento delle logiche gerarchico-funzionali, l’ulteriore appiattimento delle strutture organizzative e lo sviluppo di forme contrattuali sempre più flessibili e orientate maggiormente ad un’obbligazione di risultato piuttosto che di prestazione.
Sebbene questo scenario possa apparire non del tutto rassicurante, generando talvolta la sensazione di un futuro alla “Matrix”, in cui la centralità dell’essere umano nel mondo del lavoro potrebbe venire meno, fortunatamente gli stessi esperti ci dicono che i processi di digitalizzazione ed automazione porteranno anche nuove opportunità: molti lavori “nuovi” – che oggi nemmeno esistono – compariranno sulla scena e progressivamente assumeranno un ruolo sempre più significativo sul totale degli occupati (secondo le stime si potrebbe arrivare alla “distruzione” di circa 75 milioni di posti di lavoro e alla creazione di circa 130 milioni di nuove posizioni).
La trasformazione digitale del mondo del lavoro pone inesorabilmente al centro la questione delle competenze.
Che si tratti di una questione tecnica, pare ovvio. A provarlo basterebbe l’infinita serie di dibattiti, convegni, articoli e studi sulla carenza di laureati STEM, sulla domanda inevasa di neodiplomati con educazione “meca-tronica” e in ambito digitale, sull’inderogabilità di percorsi di up-skilling e di re-skilling per adeguare le competenze di chi un lavoro lo ha e rischia di perderlo o di chi potrebbe non essere più in grado di svolgerlo nel nuovo contesto.
Ma c’è dell’altro. Come messo molto bene in evidenza in un recente articolo su Harvard Business Review (“La vostra forza lavoro è più adattabile di quel che pensate; maggio 2109) la nuova era sarà quella dell’apprendimento continuo. La velocità e complessità dei cambiamenti tecnologici, infatti, impongono, da un lato, un’adeguata strumentazione da parte delle aziende e, dall’altro, un’attitudine specifica all’apprendimento da parte delle persone, che vedranno le proprie mansioni e le proprie skill evolvere e trasformarsi più volte nell’arco della propria carriera.
Questa considerazione si associa ad una valutazione di più ampio respiro.
Il nuovo scenario impone non solo lo sviluppo di competenze sul lato tecnologico, ma anche la crescita sul piano delle c.d. “soft” skill: non siamo di fronte a un’evoluzione graduale, ma ad un cambio di paradigma, che richiede la capacità di governare una complessità crescente e lavorare in un contesto sempre più interconnesso ed immateriale, dove la gerarchia e le norme cedono il passo a relazioni più orizzontali e a meccanismi di coordinamento incardinati sulla conoscenza e la capacità di elaborare informazioni.
Un recente studio di EY sul mismatch delle competenze legate alla trasformazione digitale (Transformation through people) evidenzia come in Italia il 68% delle aziende si dichiari carente di skill tecnologiche perché mancanti del tutto o non adeguate. Ma quelle stesse aziende, per il 54% si dichiarano carenti di skill sociali e per il 25% di skill cognitive. E tutte considerano le c.d. “competenze trasversali” molto importanti per affrontare il futuro.
Scendendo ulteriormente in profondità si osserva come le aree in cui sia hanno maggiori criticità in questo campo siano, dal punto di vista delle aziende, quelle dell’imprenditorialità, del pensiero critico, dell’imparare ad imparare e dell’empatia.
Siamo insomma di fronte ad un paradosso. Mentre l’evoluzione tecnologia del mondo del lavoro richiede skill tecniche sempre più evolute, allo stesso tempo impone un cambio di passo anche nelle competenze trasversali, che diventano sempre più importanti.
Tutto questo, naturalmente, è destinato a riverberarsi nella dinamica della domanda e dell’offerta di lavoro e quindi anche del pricing, ovverosia della retribuzione. Infatti, sebbene sembri verosimile pensare che le skill tecniche saranno sempre l’elemento preponderante nella determinazione del valore di mercato di una risorsa, è altrettanto credibile affermare che questo peso sarà minore rispetto al passato recente. Questo nuovo “umanesimo”, come talvolta è stato definito, tuttavia, non deve essere interpretato in modo sbagliato (a parere di chi scrive): non stiamo dicendo, come talvolta si sente affermare un po’ semplicisticamente, che siamo di fronte ad una rinnovata esigenza di studi umanistici. Le dinamiche di mercato sono chiare e ragionamenti in merito all’occupazione del futuro (e del presente) non possono prescindere dal fatto che le aziende sono “affamate” di profili tecnici. Tuttavia, questo sapere tecnologico necessiterà – per essere adeguatamente governato e per scaricare a terra la sua potenza – di essere integrato con adeguate skill cognitive e comportamentali, nei termini che abbiamo già descritto sopra. Ed il mercato valorizzerà questo aspetto (anzi in realtà lo sta già facendo).
Alla luce di tutto ciò, quanto valgono allora le competenze c.d. “soft”?
In un nostro recente studio, elaborando dati dell’Osservatorio delle competenze digitali 2018, che ha sviluppato un DIGITAL SKILL RATE (cioè il un indicatore sul mix di competenze di alcune professioni del mondo Digital & ICT) è emerso che a seconda dei profili le “soft” skill possono valere dal 20% al 51% del portfolio di competenze professionali anche in ruoli a contenuto molto tecnico. Analizzando i profili retributivi dei ruoli mappati dall’Osservatorio (9.851 profili) ne emerge che considerando la retribuzione al livello della mediana di mercato, le competenze soft possono valere da un minimo di 6.400 euro (lordi) fino a oltre 35.000.
E naturalmente il peso cresce laddove la professionalità si fa più complessa.
È CEO di JobPricing da giugno 2016 e segue inoltre in prima persona progetti di consulenza in ambito Total Reward, Performance Management e Leadership. Vanta una precedente esperienza di oltre quindici anni come HR & Manager e HR Director in contesti multinazionali, sia nel settore dei servizi che nell’industria.