Le chiamavano manette d’oro, impegnavano i manager ma soprattutto le imprese a tenere in piedi il matrimonio, nella buona e nella cattiva sorte, ma si sono trasformate in gabbie dorate e in lussuosi fogli di via.
Si calcola che in questi dieci anni siano piovuti sulla testa di un’ottantina di manager consiglieri di aziende pubbliche più di 360 milioni di euro, più di un terzo solo per Paolo Scaroni (Enel, Eni), Fulvio Conti (Enel) e Pierfrancesco Guarguaglini (Finmeccanica). Attenzione, non si tratta di mordi e fuggi, ma di trattamenti e paracadute stabiliti al dettaglio e minuziosamente dai contratti, ovviamente personali. Stiamo parlando di top manager pubblici. E’ giusto che una volta sottoscritti gli accordi devono essere rispettati. Ma la domanda da farsi è anche la seguente: sono stipendi e bonus legati alla produttività e ai risultati? Si, no, forse, non per tutti. In dieci anni si sono spesi 65 milioni per liquidazioni d’oro dei propri dirigenti nelle sue sei più note aziende: Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Saipem e Snam.
Nel paese della ritrovata (per forza) sobrietà, certi stipendi e remunerazioni sono un colpo al mento, uno alla pancia e uno al cuore. Non vorremmo fare del gratuito populismo. Quanti anni deve lavorare un operaio (23mila euro lordi l’anno), un impiegato (28mila), un quadro (54mila) o un dirigente (110mila) per arrivare in paradiso?
Che fare? Stabilire tetti? Solo nel pubblico (240mila euro l’anno è la nuova soglia stabilita da governo) o anche nel privato?
Certo fa malinconia ma anche indignazione pensare a quante parole si sono spese sul bonus di 80 euro al mese per gli under 25mila euro l’anno, oppure ai nuovi limiti degli stipendi di produttività: una tassazione agevolata al 10% per 3mila euro l’anno massimi per i redditi sotto i 40mila euro. Amen!
– Walter Passerini –