IL BENCHMARK RETRIBUTIVO E LA DETERMINAZIONE DELLO STIPENDIO “GIUSTO”
Come in ogni mercato, anche in quello del lavoro il valore è definito mediante il “prezzo” (la retribuzione) che fissa il punto di equilibrio tra domanda ed offerta.
L’analisi di competitività o benchmark retributivo, consiste, in estrema sintesi, nella comparazione delle retribuzioni interne rispetto a quelle di mercato per profili analoghi e, nello specifico, nel posizionamento del profilo da comparare sulla c.d. “curva retributiva” di riferimento, cioè nella determinazione della sua posizione rispetto alla distribuzione di frequenza delle retribuzioni nel mercato analizzato (cfr. sotto).
L’utilità di questa procedura, quando ci si trovi a decidere, ad esempio, di un aumento o quando si sia in procinto di formalizzare una proposta di lavoro, è piuttosto evidente, visto che la retribuzione, piaccia o meno, è la prima motivazione per scegliere un lavoro e anche per cambiarlo (cfr. Salary Satisfaction Report).
Gli elementi che determinano il valore di una certa professionalità, come noto, sono attributi sia di carattere soggettivo (esperienza, titoli di studio e formazione, età, etc.), che di carattere generale (settore, territorio, durata della prestazione, etc.). Ne deriva che la determinazione della retribuzione, tanto in termini individuali, quanto in termini di politica retributiva complessiva, dovrebbe necessariamente tenere nella giusta considerazione tali fattori. Viceversa, ci si condanna ad una gestione meramente reattiva della compensation, che, fatalmente, lo abbiamo visto spesso nella ns. attività di consulenza, conduce a problemi di reclutamento (si offrono condizioni poco attraenti per i c.d. “talenti”), di turnover (si perdono le risorse migliori per non averle adeguatamente “protette”) e di inefficace governo dei costi.
Le considerazioni di cui sopra, poiché di buon senso, correrebbero il rischio di essere perfino banali, se non fosse che la maggior parte delle aziende italiane, ancora oggi, fatica ad approcciare il “pricing” del lavoro secondo una logica di mercato. Se molte imprese, infatti, trovano del tutto naturale ricorrere a studi ed indagini per identificare il prezzo “corretto” di un bene o di un servizio che intendono produrre e commercializzare, non altrettanto si può dire per la determinazione dello stipendio “giusto”, che rimane molto spesso una questione di pancia o di necessità o di entrambe. L’uso di strumenti professionali in questo campo, in effetti, è ancora piuttosto limitato nel mercato italiano ed appannaggio soprattutto delle grandi imprese, spesso multinazionali, che tuttavia, come noto, sono appena lo 0,1% del totale.
In primo luogo, esiste, soprattutto nelle PMI, ma non solo, una scarsa conoscenza delle dinamiche che determinano una retribuzione, che porta a sottostimare il valore della puntuale conoscenza dei dati retributivi di mercato. Infatti, sebbene i CCNL non costituiscano più da tempo una guida efficace per orientarsi rispetto ai prezzi del mercato del lavoro, molte aziende – sbagliando – si limitano a identificare il mercato con cui raffrontare le proprie retribuzioni esclusivamente con quello del contratto collettivo di riferimento e/o con quello dei diretti concorrenti, dei quali ritengono, non sempre correttamente, di conoscere i trattamenti retributivi applicati. Eppure, sappiamo bene che moltissime professionalità attraversano longitudinalmente settori con trattamenti retributivi spesso molto differenti: un perito chimico, per esempio, potrebbe essere impiegato tanto in un’azienda di polimeri, quanto in una farmaceutica o nel settore alimentare.
La seconda ragione per cui il ricorso alle analisi retributive è ancora limitata è da collegarsi al fatto che gli operatori professionali in questo campo sono pochi e molto spesso le aziende si rivolgono a canali “secondari” (colloqui di lavoro, società di ricerca e selezione, consulenti del lavoro, commercialisti), che però forniscono al massimo una fotografia parziale e pure sbiadita. È superfluo dire che un simile approccio da un lato è poco efficace e dall’altro tende inevitabilmente a diminuire il valore percepito dei benchmark retributivi.
Ultimo motivo, ma non meno importante, è legato alla storia di questi strumenti. Nel passato, anche recente, infatti, le analisi si concentravano principalmente sulle retribuzioni apicali e manageriali, spesso con costi elevati dovuti non solo alla rarità delle informazioni, ma anche all’effettiva onerosità della raccolta dati, che avveniva essenzialmente mediante i c.d. “peer group”, cioè gruppi di aziende che si rendevano disponibili (a pagamento) a fornire i propri dati retributivi e a condividerli con alte organizzazioni “alla pari”.
Questi ostacoli alla diffusione di una cultura dei dati anche in campo retributivo possono essere superati? Senz’altro sì. Anzi, a ben vedere, si tratta di un processo già in corso e che nel recente passato ha subito una forte accelerazione.
Per quanto concerne la corretta valutazione del mercato retributivo di riferimento da parte delle aziende e il ricorso a canali non professionali per l’acquisizione dei dati, si tratta senz’altro di aspetti culturali, che tuttavia sono in forte evoluzione. In un mondo del business che proclama (correttamente!) e a gran forza un processo decisionale “data driven”, che porti a decisioni “oggettive” e più efficaci a garanzia di tutti gli stakeholder, è impensabile che il campo delle remunerazioni rimanga fuori, poiché, parafrasando il famoso guru della qualità William Deming “senza dati sei solo un’altra persona con un’opinione”. La crescita di JobPricing e di altri operatori professionali delle analisi retributive negli ultimi 3 / 4 anni ci pare di per sé significativa di come le cose stiano cambiando e di come la consapevolezza su questi temi stia aumentando velocemente, al punto che spesso sono gli stessi consulenti del lavoro e commercialisti che, facendo da tramite per i loro clienti, ricorrono ai servizi di benchmark professionale.
Per quanto attiene, infine, la limitata disponibilità di dati e l’onerosità delle indagini (tanto a livello organizzativo che economico), le moderne metodologie di raccolta dati, che attingono direttamente alla fonte, cioè ai lavoratori, mediante internet e che gestiscono le informazioni mediante algoritmi di calcolo, che hanno anche capacità predittiva mediante analisi di regressione, hanno di fatto consentito di superare queste limitazioni, da un lato consentendo di raccogliere molti più dati (ed aumentandone così la valenza statistica) e dall’altro rendendo questo genere di servizio molto meno oneroso a livello economico. Fra l’altro, sempre grazie al web, esistono oggi soluzioni molto semplici ed intuitive, a costi davvero contenuti, per consultare direttamente online le banca dati retributive disponibili di diversi operatori professionali (come, per restare in casa nostra, JPAnalytics – Il software per fare banchmark retributivi di JobPricing).
In conclusione, se nel mercato del lavoro, come in ogni altro mercato il “pricing” è un’attività strategica, che impatta in modo decisivo sulla capacità dell’offerta di attrarre una domanda corrispondente e che contiene informazioni molto potenti sul “brand” e sulla proposta di valore (che in questo caso è la c.d. “Employee Value Proposition”), oggi le aziende, di qualsiasi dimensione, dispongono delle possibilità per approcciare questa attività in modo strutturato e “scientifico”, abbandonando anche in questa area dell’HR management prassi che, troppo spesso, si basano su un empirismo di buon senso, che sempre di più appare anacronistico e di scarsa efficacia.
È CEO di JobPricing da giugno 2016 e segue inoltre in prima persona progetti di consulenza in ambito Total Reward, Performance Management e Leadership. Vanta una precedente esperienza di oltre quindici anni come HR & Manager e HR Director in contesti multinazionali, sia nel settore dei servizi che nell’industria.