Il patto di non concorrenza è uno strumento contrattuale con una natura prettamente difensiva: la sua funzione è quella di limitare la libertà del lavoratore – a fronte di un corrispettivo – per evitare il pregiudizio che potrebbe derivarle dall’assunzione del lavoratore stesso ad opera di un concorrente.
A termini di legge (art. 2125 c.c.) il patto soggiace a specifici vincoli che ne limitano l’applicabilità in relazione all’oggetto, al tempo e all’ambito territoriale. Le norme inoltre richiedono che il vincolo a carico del lavoratore abbia un “prezzo” certo e congruo, senza tuttavia provvedere a determinarne l’ammontare: il corrispettivo rimane nella libera disponibilità delle parti e ad oggi è solo l’interpretazione giurisprudenziale a fornire indicazioni in merito all’entità economica del patto di non concorrenza (le sentenze ci dicono che un patto congruo non potrà essere inferiore al 15% della RAL).
Poiché il trattamento fiscale e quello previdenziale sono di fatto i medesimi della retribuzione, a tutti gli effetti, per quanto diverso nella sua natura (si paga per non fare e non per avere una prestazione), il corrispettivo per il patto di non concorrenza è considerato molto spesso una parte della retribuzione, al punto che alcuni datori di lavoro, in sede d’assunzione, lo includono nella RAL, facendone un “di cui”. Altri, invece, laddove il contratto preveda il pagamento del patto a fine rapporto, inseriscono nei contratti delle clausole che consentono di non liquidare il corrispettivo, esercitando una “liberatoria” entro la fine del rapporto di lavoro. In questo secondo caso, insomma, si previene la fuga non pagando la limitazione della libertà del lavoratore, ma semplicemente minacciandolo in tal senso.
Naturalmente uno scenario di questo genere pone alcune problematiche rilevanti.
In primo luogo, appare evidente che lo strumento sia tutto sommato poco conosciuto dal punto di vista legale e di conseguenza se ne faccia spesso un uso improprio. Ne deriva non soltanto un forte contenzioso in materia, ma soprattutto un pericoloso fraintendimento: si pensa di aver messo “in sicurezza” un ruolo/competenza, mentre al lato pratico non si potrà esigere l’applicazione del patto nel momento del recesso dal rapporto di lavoro.
Al di là di considerazioni tecniche circa gli effetti giuridici (negativi per la “tenuta” del patto) di simili prassi, che rimandano all’esigenza di una costruzione solida degli stessi (cfr. “L’opinione dell’esperto”), è interessante osservare come esse siano rivelatrici di una trasformazione della natura dello strumento a livello di politiche retributive: da strumento difensivo, volto a impedire il trasferimento di competenze alla concorrenza, a strumento di retention forzata.
Sempre più spesso si lavora cioè non sul desiderio di rimanere in azienda, ma sull’impossibilità di “scappare”. A dimostrazione di questo basti pensare a come i patti si stiano diffondendo sempre più anche su risorse non strategiche ed ai livelli più bassi delle organizzazioni, spesso con importi ben lontani dalla nozione di congruità prevista dalla Legge.
Non è difficile cogliere il disallineamento fra questa tendenza e l’enfasi posta negli ultimi anni sull’esigenza di costruire politiche retributive che “ingaggino” i lavoratori rispetto all’organizzazione: da una parte si vorrebbe fare leva sulla motivazione, non soltanto con strumenti tradizionali (patti di stabilità, piani di sviluppo, sistemi d’incentivazione variabile, stock option, benefit), ma anche con strumenti che puntano a migliorare il “benessere” (welfare e da ultimo il c.d. smart working); dall’altra, si by-passa il problema della motivazione mediante un vincolo legale a rimanere in azienda. E molto spesso, inoltre, ci si trova di fronte ad un incoerente mix delle due linee, che grava inutilmente di costi il budget del personale.
In conclusione, se il patto di non concorrenza appare uno strumento efficace e talvolta necessario per la tutela del know-how aziendale, è bene ricordare come esso abbia requisiti giuridici indispensabili per essere efficace e requisiti di politica retributiva altrettanto importanti: anche quando sia stato correttamente confezionato e la sua validità sia assodata, questo strumento non serve a trattenere il lavoratore, ma serve a impedire o rallentare il trasferimento delle competenze ai concorrenti.
La motivazione, il c.d. engagement, ce lo hanno rivelato già da molto tempo studiosi del calibro di Maslow e McCleland, dipende dalla capacità dell’organizzazione di soddisfare i bisogni dell’individuo: fra questi non risulta esserci quello di non cambiare lavoro. È bene ricordarsene.
Alessandro Fiorelli – AD & Partner JobValue
È CEO di JobPricing da giugno 2016 e segue inoltre in prima persona progetti di consulenza in ambito Total Reward, Performance Management e Leadership. Vanta una precedente esperienza di oltre quindici anni come HR & Manager e HR Director in contesti multinazionali, sia nel settore dei servizi che nell’industria.