Il presupposto forte del tema della competitività manageriale in Italia è rappresentato dalla cognizione che investire nelle competenze è interesse comune di aziende, istituzioni, individui. Del singolo in quanto attore protagonista, portatore e principio “pro-attivo” di competenze; delle aziende in quanto scenario, laboratorio, organi beneficiari; delle istituzioni in quanto teatro, corpo (sociale). Le competenze professionali (non solo le conoscenze, ma anche le capacità manageriali) sono richieste dai processi organizzativi ma sono detenute dalle persone: solo potenziandole e aggiornandole si possono raggiungere virtuosi traguardi comuni manager-impresa. Quindi chi deve investire sulle competenze manageriali? Le aziende o i singoli manager? È un costo o un investimento? Ovviamente per le aziende investire sullo sviluppo delle competenze dei propri manager è uno strumento di total rewarding ma altrettanto, ovviamente, per i singoli sviluppare anche in proprio le competenze manageriali è una forma di previdenza individuale ormai ineludibile.
Da tempo numerose indagini confermano che non ci possono più essere le “aziende mamma” e che il manager deve rompere gli schemi, prendendosi rischi maggiori e investendo personalmente nella gestione proattiva del proprio sviluppo, perché solo con l’indipendenza (sviluppo professionale) potrà essere co-fautore del proprio destino (carriera, retribuzione). Il problema/opportunità dell’evoluzione del ruolo manageriale (investimenti in formazione, coaching…) si sta spostando dalle aziende al singolo individuo per motivi sia di budget che di people strategy: nessuna azienda è in grado di garantire lunghe collaborazioni, ergo importanti investimenti sui singoli.
Oggi ai manager è richiesta una responsabilità trasversale, essere impegnati a realizzare molteplici target contemporaneamente: quelli macro-aziendali, quelli del proprio ruolo/funzione/business unit; quelli del proprio personale sviluppo professionale. Parallelamente dovrebbe giocare un ruolo più significativo la responsabilità sociale delle imprese: tutelare meno (“il posto”) ma garantire maggiori possibilità di investimento nell’aggiornamento delle skill personali che rimangono poi patrimonio (“valore” anche economico) anche del singolo e suo personale bagaglio professionale.
Però è oggettivamente difficile, soprattutto per le medie imprese, avere risorse per sviluppare le competenze dei singoli che, a qualsiasi livello professionale, devono quindi farsi parte attiva per “emanciparsi” dal ruolo di forza lavoro per assumere quello di “forza delle competenze”: non più il “posto” per coltivare un ruolo e assumere competenze ma, attraverso le competenze, esprimere una professionalità che meriti un posto e una corretta retribuzione.
Una delle principali chiavi di competitività delle imprese dovrebbe essere rappresentata dallo storno dei costi di burocrazia e fiscalità a favore di investimenti (monitorati) in competenze. Un condiviso costante investimento sulla valorizzazione delle competenze è la principale via per aumentare la managerializzazione delle imprese e far lievitare virtuosamente le retribuzioni individuali.
Partendo dallo spunto molto italiano del “manager-imprenditivo”, il sistema istituzionale, associativo, imprenditoriale, sindacale dovrebbe incentivare ancor di più l’accesso dei singoli, se proattivi, a percorsi formali di misurazione, sviluppo e certificazione delle competenze, affinché queste vengano formalizzate e quindi premiate con adeguate forme di retribuzione variabile (per incentivare), differita (per trattenere) o anche non monetaria. Perché per le imprese (anche piccole) avere più competenze in casa equivale a maggior competitività. E per il singolo allenare e sviluppare le proprie competenze significa poter ottenere migliore e maggiore remunerazione e rivendibilità sul mercato del lavoro.
Su quali competenze investire? Il business partner di cui hanno bisogno oggi le aziende deve essere un mix di competenze di vision di mercato, strategica e sistemica; capacità realizzativa; capacità relazionali e comunicative; stabilità emotiva unita a flessibilità. Ciascun manager (anche senza essere necessariamente un “top manager” …) deve contemporaneamente interpretare il ruolo di agente del continuo cambiamento aziendale e di agente della propria continua evoluzione, secondo curve ormai non più regolari e tantomeno necessariamente ascendenti, anche da un punto di vista della flessibilità retributiva o di formule variegate di total rewarding.
Preparazione e fedeltà non bastano, occorre fare auto-manutenzione delle proprie competenze unitamente alla coltivazione delle proprie relazioni e network, allenandosi con tecniche di professional fitness e dedicando tempo al proprio coaching manageriale (sia di networking che di apprendimento).
Gandhi diceva: “Sii il cambiamento che chiedi al mondo”.
Così il manager-imprenditivo e imprenditore di se stesso, deve occuparsi personalmente della propria evoluzione di ruolo (self career management) e attivarsi proattivamente nell’analisi dei benchmark retributivi di mercato perché le aziende, che ci piaccia o meno, hanno “dovuto” trasferire questa attività al singolo e non ne guidano più gli sviluppi.
– Fabio Ciarapica –
Consigliere di Amministrazione di Praxi S.p.A e Managing Director di Praxi Alliance Ltd.
Lavora nel campo della ricerca e selezione di figure executive a livello internazionale, consolidando competenze nello sviluppo del capitale umano, nell'executive auditing, HR governance & development, nella gestione del cambiamento, dei talenti e della performance e nel design organizzativo.