Ma come si fa a chiamarla meritocrazia, che significa governo di chi merita davvero, perché migliore e quindi più meritevole di ricompense? Non è per sparare sulla Croce rossa, ma il sistema pubblico è il luogo dell’inesistenza di pratiche meritocratiche. Un ultimo esempio?
Lo Stato italiano spende ogni anno 800 milioni di euro (sugli 800 miliardi di spesa pubblica complessiva) per pagare i premi di risultato dei circa 50mila dirigenti pubblici. Rispetto alla spesa globale un’inezia; rispetto a uno stipendio medio di un dirigente medio (110mila euro lordi l’anno) una mostruosità. Eppure continuano a chiamarla meritocrazia. Lo stipendio di un dirigente pubblico medio è diviso in tre parti: circa 50mila euro come base, altri 50-60mila euro per la posizione ricoperta; a queste due va aggiunta una terza parte, che chiamano premio di risultato, che ammonta a circa 35-40mila euro. Significa in sostanza che questa ultima parte dovrebbe premiare il risultato individuale con incentivi economici selettivi.
E invece? Tutti i dirigenti pubblici prendono il premio di risultato, nessuno escluso. Ma come si fa a non sorridere? Vuol dire che sono tutti bravi e quindi vanno premiati? Un erga omnes che grida vendetta. Come è possibile premiare con quote aggiuntive tutti, ma proprio tutti i dirigenti? Un’anomalia, che la dice lunga sull’anomalia del caso italiano. Sembra che nel Regno Unito a prendere lo stipendio di risultato sia solo un dirigente su quattro. In Italia siamo all’en plein: il 100%. E bravi! Del resto si vede che sono soldi meritati: basta guardare al funzionamento della macchina pubblica, per capire che in Italia abbiamo una classe dirigente e dei dirigenti pubblici che ci meritiamo.