Il principale tema che dovranno affrontare le classi dirigenti per i prossimi anni è il lavoro, l’occupazione. Sarà la creazione di lavoro a caratterizzare il ruolo politico ed economico delle future classi dirigenti.
Ma che cosa significa creare lavoro? Per creare occupazione è necessario, oltre che fare il tagliando ai contratti di lavoro, agevolare la domanda da parte delle imprese: riduzione della burocrazia, dimezzamento dei costi dell’energia, semplificazione, riduzione del cuneo fiscale, sono solo alcuni elementi che concorrono al sostegno della domanda. Inoltre è necessario avere chiari il quadro di politica economica e i settori di crescita e di sviluppo su cui il nostro paese dovrà puntare, gli assi strategici con i quali si può creare occupazione. Tra di essi, a puro titolo esemplificativo, si possono tra gli altri citare: turismo e beni culturali; made in Italy e design; Ict e web; green economy; nuovo welfare; costruzioni; industria manifatturiera di eccellenza. Infine, è necessario rivedere le troppe formule contrattuali, dentro le quali si nascondono gli abusi, a vantaggio di un contratto prevalente a tutele crescenti, insieme alla riforma degli ammortizzatori sociali, alla nascita di una cabina di regia nazionale per l’occupazione e al consolidamento dei servizi all’impiego, pubblici e privati.
In questo senso, il cosiddetto Jobs Act sembra muoversi nella giusta direzione, a condizione che venga rapidamente approvato nella sua integrità: non giova a un disegno di ampio respiro la frammentazione di temi e di contenuti, che ne attutirebbero l’efficacia. Ma occorre anche puntare su nuovi paradigmi culturali.
Il primo, che in certi santuari economici sembra blasfemo, è che il lavoro si può e si deve creare. E’ un errore pensare però che la creazione di lavoro sia un compito esclusivo della mano pubblica, che da sola dovrebbe sostenere gli investimenti, rivitalizzando la funzione di un non più proponibile Stato-imprenditore. Non è lo Stato, il comune, la regione a dover creare in esclusiva il lavoro; questi soggetti devono porre le basi, le linee guida e le agevolazioni perché si creino le condizioni di una maggiore domanda, che crei a sua volta più occupazione.
Ma se non è la versione di un malinteso neo-keynesismo a salvarci (il dirigismo pubblico), non lo possono essere né il liberismo miope del turbocapitalismo (domanda e offerta si incontrano automaticamente da sole) né il neo-malthusianesimo (siamo in troppi, consumiamo troppo, ci vorrebbero controllo delle nascite e, magari, qualche guerra o epidemia) né le filosofie new age dell’ozio creativo (siccome le tecnologie distruggono posti di lavoro, dobbiamo lavorare meno per lavorare tutti, magari a carico dello Stato).
Il primo nuovo paradigma culturale è che il lavoro si può creare a livello planetario, europeo, nazionale o locale, se le classi dirigenti lo fanno diventare la priorità, andando alla ricerca sia dei settori strategici su cui impostare politiche di crescita sia dei giacimenti occupazionali territoriali, che rispondono ai bisogni delle comunità locali. E’ uno strabismo virtuoso (un occhio al basso e un occhio al mondo) che potrà aiutarci a produrre vero lavoro.
Il secondo paradigma è culturale e prevede il passaggio da una concezione del lavoro come dipendente a una concezione del lavoro intraprendente. Il cambio di cultura esige di pensare che il futuro non sarà solo fatto di lavoro dipendente ma da lavoro intraprendente, imprenditivo, autonomo, consulenziale, auto-imprenditoriale.
Il terzo paradigma è che il cambio culturale e la creazione di lavoro non potranno esserci senza una formazione e senza una rete di sevizi al lavoro degni di questo nome. Orientamento scolastico e professionale, accompagnamento di chi perde il lavoro, percorsi di carriera anche imprenditoriale, politiche attive del lavoro.
Saranno questi i capisaldi di un nuovo atteggiamento verso il lavoro; che sarà un bene comune se esisteranno dei servizi efficaci che lo rendano tale. Il diritto al lavoro del futuro sarà infatti e soprattutto diritto ai servizi per il lavoro, che appartengono a tutti i cittadini e non solo ai più tutelati. E’ forse anche su questo terreno che si ricomporranno le fratture e le guerre che lacerano il lavoro: quelle generazionali, tra giovani e anziani, quelle tra dipendenti pubblici e privati, tra imprenditori e dipendenti, tra italiani e stranieri. Il lavoro regolare cresce nel mondo.
Nella ricca ma stanca Europa e in Italia va ripensato e rianimato, per ridargli le ali, perché sia sempre un diritto ma possa diventare un progetto. E’ questo l’imperativo categorico delle nuove classi dirigenti orientate a quel bene comune che si chiama lavoro.
– Walter Passerini –