Mentre il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti inizia a dispiegare i propri effetti (dall’uno al venti febbraio oltre 76mila aziende avevano chiesto all’Inps la decontribuzione prevista dalla legge di Stabilità), nascono alcuni “schieramenti” intorno a questa formula contrattuale.
I “partiti” sono tre. C’è chi, come i nuovi assunti, misurerà gli effetti della sterilizzazione dell’articolo 18, sia a livello individuale che collettivo. In caso di licenziamento senza giusta causa, alcuni potrebbero essere reintegrati (licenziamenti discriminatori e alcune fattispecie per i disciplinari), la maggioranza percepirà invece un’indennità risarcitoria (da 4 a 24 mensilità); i licenziamenti economici per queste tipologie di lavoratori non avrebbero più lo scudo dell’articolo 18.
Nella stessa azienda, come in altre aziende, vi sarà anche chi non vorrà affatto cambiare azienda. Infatti, le vecchie assunzioni attualmente in vigore sono regolate dalla vecchia normativa, che prevede il mantenimento dell’articolo 18. Per queste persone il nuovo contratto appare quasi come una minaccia e come una diminuzione delle tutele. Per questo i vecchi assunti faranno di tutto per evitare di cambiare impresa. Per loro il contratto a tutele crescenti è un freno alla mobilità verso altre aziende, perché si ritroverebbero con minori tutele.
C’è infine chi, come suggerito da alcuni commentatori, vorrà e potrà contrattare il passaggio dall’attuale a una nuova azienda, senza incorrere nella deprivazione dell’articolo 18. Nascerebbe così un nuovo tipo di benefit, costituito dall’applicazione della vecchia formula contrattuale: un lavoratore richiesto da una nuova impresa potrà rivendicare l’applicazione dell’articolo 18 o quantomeno i contenuti di una forma che non esiste più, tra i quali la possibilità di reintegro in caso di licenziamento illegittimo.
Tre schieramenti per un posto di lavoro, che non mancheranno di creare confusione e qualche contenzioso anche all’interno di una stessa impresa.
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