La politica retributiva e il divieto di discriminazione di genere
Sempre più importanza assume, nel contesto delle politiche retributive, il principio di non discriminazione sotto il profilo del divario retributivo di genere.
Il divario retributivo di genere è la differenza nella retribuzione tra uomini e donne, che dipende dai seguenti fattori principali:
- le posizioni lavorative di gestione e supervisione sono in maggioranza ricoperte da uomini, con la conseguenza che gli uomini ricevono più promozioni e quindi maggiori retribuzioni (la percentuale delle donne dirigenti è molto bassa);
- le donne svolgono compiti non retribuiti in proporzione maggiore degli uomini in relazione ai lavori di casa e alla cura dei figli, con la conseguenza che molte donne riducono l’orario di lavoro chiedendo un part time e riducendo le ore di lavoro retribuite;
- le donne tendenzialmente passano più tempo degli uomini fuori dal mercato del lavoro e queste interruzioni influenzano la progressione di carriera e il trattamento retributivo;
- spesso le donne sono occupate in alcuni settori e occupazioni che offrono salari inferiori a quelli in cui sono prevalentemente occupati gli uomini, a parità di esperienza e qualifiche;
- si verificano parecchie situazioni di discriminazione retributiva, sebbene vietata.
Da un’indagine Eurostat risulta che in Italia il divario retributivo di genere complessivo, misurato in riferimento al salario annuale medio percepito da donne e uomini, è del 43,7% e del 39,3% in UE (Eurostat 2014). Tale stima tiene conto dei tre svantaggi principali sopportati dalle donne: retribuzione oraria inferiore, minor numero di ore di lavoro retribuito, minore tasso di occupazione.
Prendendo in considerazione solo le retribuzioni full-time, il gap scende al 10% nel 2018 (fonte: Salary Outlook 2019 1a ed. – Osservatorio JobPricing) e nel 79% dei casi gli uomini hanno retribuzioni superiori alle donne a parità di ruolo (fonte: Gender Gap Report 2018 – Osservatorio JobPricing).
Se da una parte non esiste nel nostro ordinamento un principio di parità retributiva dei lavoratori a parità di mansioni, cosicché è possibile all’autonomia contrattuale delle parti stabilire differenze di retribuzione mediante il riconoscimento di benefici retributivi non estesi alla generalità dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni, dall’altra parte, eventuali trattamenti differenziati non possono ledere il divieto di discriminazione in ragione del sesso dei lavoratori (c.d. gender pay gap).
Diversi casi di discriminazione retributiva di genere sono arrivati negli ultimi anni davanti ai giudici, sia di merito che di cassazione, che ne hanno riaffermato il divieto, anche in relazione a quanto previsto dal Codice delle pari opportunità secondo cui costituisce discriminazione «ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità o dell’esercizio dei relativi diritti» (art. 25 comma 2 bis D. Lgs. 198/2006 mod. D. Lgs. 5/2010).
All’art. 28 dello stesso Codice di pari opportunità è sancito espressamente il divieto di discriminazione retributiva, secondo cui «É vietata qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale é attribuito un valore uguale. I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne ed essere elaborati in modo da eliminare le discriminazioni».
A quanto sopra si aggiunge la normativa comunitaria, in particolare l’art. 119 del Trattato di Roma (ora articolo 157 del TFUE) dispone che «Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità della retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore».
Dal secondo comma di tale disposizione emerge peraltro che il concetto di retribuzione include non solo lo stipendio normale di base, ma tutti i vantaggi pagati direttamente o indirettamente dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo, quindi anche gli aumenti retributivi, gli incrementi per anzianità, le indennità mensili integrative dello stipendio, i fringe benefits e i premi.
Inoltre, il principio predetto trova applicazione negli articoli 22 e 34 del D. Lgs. 151/2001 che prevedono l’obbligo di computare nell’anzianità di servizio della lavoratrice sia i periodi di astensione obbligatoria che quelli di astensione facoltativa dal servizio per congedo parentale (con l’unica eccezione delle ferie e della 13ma mensilità o gratifica natalizia).
Sulla base di ciò, il Tribunale di Torino con sentenza del 26 ottobre 2016 ha accertato la natura discriminatoria del comportamento del datore di lavoro che, nel calcolare il premio di risultato, per un certo periodo non ha considerato come presenza effettiva in servizio le assenze per congedo di maternità obbligatoria/anticipata, per congedi parentali e per permessi per malattia dei figli, poiché il criterio retributivo che equipara le assenze suddette alle altre assenze dal lavoro (ad esempio per malattia) produce un effetto pregiudizievole esclusivamente o in misura prevalente sulle lavoratrici donne realizzando una discriminazione fondata sul sesso.
Analogamente la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza del 22 ottobre 2018, n. 26663, in un caso in cui il datore di lavoro aveva negato il premio fedeltà ad una dipendente non computando negli anni di effettivo servizio due periodi di astensione facoltativa per maternità, ha riconosciuto una discriminazione indiretta di genere che «metterebbe le lavoratrici donne in una condizione sfavorevole e penalizzante rispetto ai colleghi uomini».
Alla luce di quanto sopra, per evitare forme di discriminazione di genere, occorre prevedere a livello aziendale una politica retributiva – sia per la retribuzione di base che per aumenti retributivi, incrementi per anzianità, eventuali indennità mensili integrative dello stipendio, nonché fringe benefits e premi – utilizzando criteri di computo ed obiettivi che non penalizzino, neanche indirettamente, le lavoratrici donne rispetto agli uomini.
In sintesi, le situazioni di possibile rischio possono essere indicate come segue:
- classificazione del personale e/o determinazione della retribuzione per dipendenti di pari livello o per mansioni di uguale valore in misura differente per posizioni ricoperte da donne e da uomini;
- mancata equiparazione degli istituti legati alla maternità e alla gravidanza (ad esempio, assenza dal lavoro per congedo, permessi per la cura dei figli) nella valutazione della durata e/o permanenza del rapporto di lavoro effettivo ai fini retributivi;
- mancata considerazione dell’orario di lavoro part time ai fini della determinazione di elementi variabili della retribuzione (ad esempio, mancata diversificazione degli obiettivi raggiungibili da full time e part time).
Il sistema di politica retributiva aziendale deve pertanto essere strutturato in modo tale da garantire l’equità interna e l’allineamento dei livelli retributivi a parità di contributo dei diversi ruoli lavorativi, con strumenti che evitino la discriminazione sotto il profilo del divario retributivo di genere.
L’Avv. Federica Pagani entra a far parte dello studio nel 2010, diventando socio nel 2016. Vanta una particolare specializzazione ed esperienza nel contenzioso giuslavoristico e previdenziale, nonché nell’assistenza e consulenza nella gestione del rapporto di lavoro di manager e top manager.