Accordi di prossimità: quali opportunità nell’epoca del Decreto Dignità?
L’entrata in vigore del cd. Decreto Dignità (d.l. n. 87/2018 conv. in L. n. 96 del 9 agosto 2018), con la contestuale re-introduzione di stringenti vincoli per la stipula di contratti a termine e di somministrazione a termine, ha fatto tornare di attualità il dibattito su uno strumento giuridico che esiste da diversi anni nel nostro ordinamento, nel quale alcuni vedono il “grimaldello” che dovrebbe servire a forzare le catene introdotte dal Decreto Dignità e a restituire (quantomeno) la flessibilità offerta dal regime in vigore fino al 14 luglio 2018.
Il riferimento, evidentemente, è ai cd. accordi di prossimità, vale a dire quei «contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale» che – ai sensi dell’art. 8 co. 2 bis del d.l. 138/2011 (conv. in L. n. 148 del 14 settembre 2011) – «operano anche in deroga alle disposizioni di legge … ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro».
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Per comprendere fino a che punto sia effettivamente possibile una contrattazione decentrata in deroga alla normativa di legge ed alla contrattazione nazionale, occorre anzitutto comprendere quali siano i presupposti e i limiti elencati dal suddetto art. 8.
Il primo limite (che potremmo definire “teleologico”) è costituito dalle finalità – tassativamente individuate dalla norma – a cui tale contrattazione deve obbligatoriamente essere ispirata, vale a dire: «alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività».
Il secondo limite (che potremmo definire “oggettivo”) riguarda invece il contenuto delle intese, che «possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro». Quanto alle conseguenze del recesso fanno tuttavia eccezione «il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento».
Sempre con riferimento al contenuto, «il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro» costituiscono a loro volta limite esterno invalicabile.
Da ultimo, un terzo limite (che potremmo definire “soggettivo”) concerne i soggetti abilitati alla sottoscrizione dei suddetti accordi, cioè le «associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011».
Si tratta di una legittimazione a maglie molto larghe in quanto, come osservato dalla dottrina, il requisito della rappresentatività è riferito anche al livello territoriale (e non solo a quello nazionale) e pure le rappresentanze sindacali in azienda (r.s.a. ed r.s.u.) possono firmare gli accordi. Dal tenore letterale della disposizione, inoltre, emerge con chiarezza che gli accordi possano essere firmati anche separatamente con le singole sigle sindacali, senza dovere necessariamente raccogliere il consenso di tutte le associazioni.
In questo modo, tuttavia, gli accordi hanno effetto solamente nei confronti dei lavoratori iscritti ai sindacati firmatari. Perché possano avere «efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati» è necessario un ulteriore requisito, vale a dire che la sottoscrizione avvenga «sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali»: occorrerà quindi non la maggioranza dei lavoratori interessati, bensì la maggioranza dei sindacati presenti nell’ambito di negoziazione di riferimento.
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Fatta questa breve premessa di carattere, può essere utile passare in rassegna una casistica (senza pretesa di esaustività) che aiuti ad esemplificare le modalità di utilizzo della strumentazione giuridica offerta dall’art. 8 del d.l. n 138/2011.
(i) Con riferimento ai contratti a termine e di somministrazione a termine, la relativa regolamentazione di rango primario (legge e CCNL) viene espressamente richiamata tra quelle che possono essere oggetto di deroga da parte degli accordi di prossimità, e ciò – a differenza ad esempio della risoluzione del rapporto di lavoro – senza menzionare alcuna eccezione sottratta a tale regola.
L’unico limite alle deroghe rimane quella del rispetto delle norme costituzionali e del diritto comunitario: per avere un parametro, tuttavia, fino al 14 luglio 2018 era possibile stipulare un contratto (o una successione di contratti) a termine senza causale fino a una durata massima di 36 mesi con 5 proroghe, più un ulteriore rinnovo non superiore a 12 mesi, e tale normativa non è stata mai considerata in contrasto né con il diritto comunitario né con la Costituzione.
Analogamente, era possibile stipulare contratti di somministrazione a termine anche in successione senza sottostare ai limiti temporali previsti per il contratto a termine: da ultimo, il CCNL delle APL prevedeva unicamente il limite al numero delle proroghe fissato in 6 volte nell’arco di 36 mesi.
In prima approssimazione, quindi, si potrebbe pensare di recuperare tramite gli accordi di prossimità la disciplina pre-Decreto Dignità, che sicuramente consentiva un margine di flessibilità molto più ampio, eliminando l’obbligo di causale e i limiti temporali successivamente introdotti, anche con riferimento alla successione tra contratti a termine e di somministrazione a termine (che prima non era in alcun modo sanzionata).
Tale recupero, ovviamente, non potrà essere effettuato in maniera indiscriminata e arbitraria, ma dovrà trovare un preciso riscontro nelle finalità previste dall’art. 8 del d.l. 138/2011 (in primis la maggiore occupazione, la gestione delle crisi aziendali e occupazionali, gli investimenti e l’avvio di nuove attività).
A questo proposito, i primi esperimenti condotti sul campo evidenziano come la negoziazione tra le aziende e le OO.SS, al fine di dare concretezza alla finalità di creare «maggiore occupazione», conduca ad accordi nei quali l’abbattimento dei vincoli imposti dalla normativa del Decreto Dignità si accompagna all’impegno a stabilizzare una percentuale (spesso significativa) dei lavoratori assunti a termine in forza degli accordi di prossimità.
(ii) In secondo luogo, è interessante il dato che in più occasioni siano stati rigettati i ricorsi dei lavoratori che lamentavano un’(asseritamente) illegittima modificazione unilaterale del proprio orario di lavoro, decisa a valle della stipula di accordi di prossimità come strumento per la «gestione delle crisi aziendali e occupazionali» e per evitare di ricorrere alla procedura di licenziamento collettivo.
I giudici aditi, infatti, hanno rilevato come tale riduzione dell’orario e la conseguente riduzione della retribuzione, nella ricorrenza di tutti i presupposti indicati dall’art. 8, fossero perfettamente legittime.
Resta salvo quanto chiarito ancora di recente con la risposta del Ministero del Lavoro all’interpello n. 8 del 12 febbraio 2016, che conclude per la non derogabilità della retribuzione minima stabilita dal CCNL di riferimento e dell’imponibile contributivo minimo previsto dalla legge, pena la nullità degli accordi di prossimità per contrarietà a norme imperative di legge. E ciò a fronte della tutela di rango costituzionale apprestata al principio della «retribuzione proporzionata e sufficiente» (art. 36 Cost.) ed alle finalità pubblicistiche del sistema assicurativo e previdenziale, di cui non è possibile disporre in via negoziale.
È iscritto all’albo degli avvocati dal 2013. Collabora con lo studio Lettieri&Tanca dall’ottobre 2013. L'avv. Trombetta parla e lavora in inglese.