LA RETRIBUZIONE NEI DIVERSI LIVELLI DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA: OLTRE I MINIMI TABELLARI?
Il punto di partenza di un’analisi in merito ai profili giuridici della retribuzione non può che essere l’art. 36 della Costituzione, dove sono sanciti i due principi cardine della “proporzionalità” e della “sufficienza” della retribuzione, «proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» e « sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Storicamente, il presidio di tale garanzia costituzionale è sempre stato affidato alle tabelle economiche contenute nei contratti collettivi nazionali, che in concreto consentono di stabilire cosa sia effettivamente “proporzionato” e “sufficiente”. È evidente, tuttavia, che l’individuazione del trattamento retributivo minimo inderogabile – seppure necessaria – non è sufficiente ad esaurire le esigenze sottese ad una politica retributiva a 360°.
A conferma di ciò, la recentissima intesa raggiunta il 28 febbraio 2018 dai sindacati confederati con Confindustria, ribadendo in realtà concetti già noti, introduce la distinzione tra il TEM (trattamento economico minimo) e il TEC (trattamento economico complessivo). Se la sigla “TEM” indica i già citati «minimi tabellari» individuati dal contratto collettivo nazionale di categoria, il “TEC” (trattamento complessivo), viceversa, è costituito dalla sommatoria tra il trattamento minimo e «tutti quei trattamenti economici – nei quali, limitatamente a questi fini, sono da ricomprendere fra gli altri anche le eventuali forme di welfare – che il contratto di categoria qualificherà come comuni a tutti i lavoratori di settore, a prescindere dal livello di contrattazione a cui il medesimo contratto collettivo nazionale di categoria ne affiderà la disciplina».
L’accordo ribadisce quindi l’esistenza un trend in atto nel nostro paese, rappresentato dal tentativo delle Parti Sociali (e anche, come si vedrà, del Legislatore) di valorizzare la contrattazione collettiva come fonte di trattamenti economici ulteriori rispetto ai minimi inderogabili, investendo in particolare di tale compito la contrattazione di secondo livello, sia essa territoriale o aziendale.
In relazione all’aspetto retributivo, il Protocollo d’intesa tra Governo e Parti Sociali del 1993 aveva inizialmente compiuto una scelta diversa: le parti sociali erano partite dal presupposto della scarsa diffusione della contrattazione aziendale e territoriale ed avevano previsto che il CCNL dovesse non solamente adeguare i minimi retributivi agli incrementi del costo della vita, ma anche distribuire ai lavoratori i margini di produttività creati in un determinato settore.
L’Accordo Quadro del 22 gennaio 2009, con opzione confermata dal successivo accordo interconfederale del 28 giugno 2011, ha invece ridotto il ruolo del contratto nazionale in materia retributiva, con l’intento esplicito di favorire la diffusione del secondo livello contrattuale. Ai CCNL è stato riconosciuto esclusivamente il ruolo di salvaguardare il potere d’acquisto delle retribuzioni, mentre quello di accrescere in termini reali il trattamento economico è stato spostato totalmente sul secondo livello contrattuale.
È in tale contesto che l’Accordo del 2009 ha introdotto il cd. elemento economico di garanzia, un importo fisso stabilito dalla contrattazione nazionale che deve essere riconosciuto quando non ci sono altri trattamenti aggiuntivi. È significativo che l’istituto in questione non abbia avuto molto successo in termini di diffusione e che, in ogni caso, le parti sociali abbiano subito accettato il principio che lo stesso debba essere disapplicato in presenza di trattamenti aggiuntivi previsti dalla contrattazione di secondo livello, ed anche in presenza di superminimi individuali.
Con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, poi, sono state consacrate anche le cd. clausole di uscita, già consentite per giurisprudenza consolidata e poi rafforzate dall’art. 8 co. 2 bis della L. 148/2011. Si tratta di uno strumento volto a consentire il controllo delle parti sociali a livello centrale delle deroghe che conducono ad una “flessibilizzazione” a livello periferico del trattamento economico del CCNL. Quest’ultimo è in grado di legittimare gli accordi di secondo livello alla modifica di istituti retributivi in esso regolati, al fine di renderli variabili e fermo restando il limite minimo di cui all’art. 36 Cost.
In tale panorama, un ruolo chiave rimane affidato alla retribuzione variabile, vale a dire ai trattamenti economici strettamente legati a reali e concordati obiettivi di crescita della produttività aziendale, di qualità, di efficienza, di redditività e di innovazione.
Su di essa ha competenza esclusiva la contrattazione di secondo livello. Il contratto nazionale può dettare linee guida utili all’individuazione degli obiettivi al cui raggiungimento agganciare la maturazione del diritto alla maggiorazione, ma non vincolanti. Si tratta di indicazioni con varie gradazioni di dettaglio, che possono essere recepite o riadattate a livello decentrato. Resta fermo che la retribuzione variabile è una materia di competenza della contrattazione di secondo livello e la mancata regolamentazione deve essere considerata e rispettata come il risultato di una scelta delle parti sociali, che verrebbe sconfessata se al lavoratore fosse riconosciuta la facoltà di rivendicare il premio sulla base della previsione del contratto nazionale. Questa possibilità è stata fermamente negata dalla giurisprudenza, secondo la quale le clausole dell’accordo nazionale non fanno sorgere un diritto al premio in capo ai lavoratori.
Il ruolo cardine riconosciuto alla previsione di una parte variabile della retribuzione nella contrattazione di secondo livello è stato confermato da una copiosa legislazione incentivante, nell’ambito della quale un ruolo speciale assume la detassazione introdotta con la Legge di Stabilità per il 2016 (l. 208/2015) e, correlativamente, l’accordo interconfederale del 14 luglio 2016, con il quale le parti sociali sono intervenute, tra l’altro, per proporre un modello standard di accordo sindacale di secondo livello, previsto dalla legge come condizione per l’accesso ai benefici.
In definitiva, lo scenario delle relazioni industriali del nostro paese rimane dominato dalla contrattazione collettiva nazionale, vera architrave del mercato del lavoro, e studi aggiornati evidenziano che solo il 19% delle aziende al momento è coperta da un contratto integrativo. Si tratta però di un dato medio, che cresce fino al 70% in relazione al numero di dipendenti. Ciò dimostra che una politica retributiva efficace non può trascurare le opportunità offerte dalla contrattazione integrativa, eventualmente anche coinvolgendo le parti sociali in un dibattito e – laddove non vi sia una regolamentazione – nell’avvio di una negoziazione sul tema della retribuzione variabile.
È iscritto all’albo degli avvocati dal 2013. Collabora con lo studio Lettieri&Tanca dall’ottobre 2013. L'avv. Trombetta parla e lavora in inglese.