In questi anni, ho potuto constatare una crescente richiesta di produzione di patti di non concorrenza da parte dei capi azienda per le cosiddette “risorse chiave” e in particolare, nelle mie esperienze professionali, ho sperimentato l’utilizzo di questo strumento soprattutto in settori altamente concentrati e quindi con pochi players oppure in settori altamente competitivi dove, in entrambi i casi, la perdita di risorse che hanno o la gestione diretta di un portafoglio clienti o un know how specifico possa mettere a rischio i risultati dell’azienda.
A ben guardare tuttavia ritengo che si tratti comunque di uno strumento che mette potenzialmente al riparo nel breve/brevissimo periodo giacchè la durata del patto – solitamente da 1 a 3 anni – di per sè delimita l’orizzonte temporale nel quale ci si può sentire “in salvo”.
Senza entrare poi nel dettaglio della congruità di quanto deve essere corrisposto rispetto alla durata e alla dimensione del sacrificio che viene richiesto al proprio collaboratore. Scrivere un patto di non concorrenza che abbia una “tenuta” legale è cosa delicata e ancora oggi in caso di contenzioso esiste una certa dose di alea sulle possibilità di vedersene riconoscere la validità.
Se guardiamo, inoltre, la mera applicazione del patto di non concorrenza con gli occhi del dipendente certo gli/le evidenzia la sua importanza per l’azienda e il suo valore come asset ma d’altra parte a mio modo di vedere può anche essere valutata come lo strumento più semplice a cui pensare, quello che sancisce un sinallagma molto basico e che non rappresenta un sistema di retention che sia apprezzabile e/o apprezzato.
A mio parere il tema è ben più sottile – e lo diventerà ancor di più con le nuove generazioni – ed è quello delle fondamenta su cui si desidera costruire il rapporto con il proprio dipendente: se sulla scorta di un patto prematrimoniale in cui sono definiti i benefici derivanti dalla “fedeltà” e le conseguenze in caso di rottura, oppure se sulla scorta di un percorso che dà ad entrambe le parti la possibilità di avere un vantaggio più elevato se si resta insieme.
Per mia natura ritengo che il secondo approccio sia, senza dubbio, il più faticoso da seguire ma anche quello che dà maggiori garanzie nel tempo in termini di retention, di motivazione, di engagement e di impatto positivo sui risultati aziendali. Credo che un’azienda che cerca di trovare modi per comprendere quali sono i drivers che legano i propri dipendenti chiave (e non) all’azienda stessa e anche gli strumenti giusti da applicare sia più lungimirante.
E ancor più lungimiranti sono la capacità dell’azienda di imparare a non dipendere solo da alcuni e la capacità di trovare risorse di potenziale e farle crescere sotto le ali di chi un giorno potrà prendere altre vie.
Credo quindi che nell’agenda di tutti noi HR tra i primi obiettivi debba esserci la ricerca di un insieme di strumenti tali per cui le persone desiderino legarsi all’azienda e non esservi forzatamente legate. Perché il vero vantaggio competitivo sul mercato è e sarà quello di avere dipendenti che hanno 100e1 ragioni per restare piuttosto che una sola che impedisce loro di andare.
Ilaria D'Aquila – VP Italy HR Ceva Logistics