Tutti ricordiamo il periodo in cui imperversava il mito della globalizzazione. Un unico mercato globale, brand universali e universalmente appealing, il modello multinazionale anglosassone che faceva scuola e che, come una versione corporate della Settimana Enigmistica, poteva vantare innumerevoli tentativi di imitazione. Contrapposto al Golia del business, permaneva e permane in Italia il “nostro” modo di fare impresa, fatto di quel mix impareggiabile di ingegno creativo nell’ideazione e di eccellenza nell’esecuzione, molto attento agli aspetti tecnici e al contenuto del prodotto, ma poco propenso a considerare come rilevante la forma e gli aspetti organizzativi. Molto “product driven” anziché “market driven”. Molto locale e “lean” anziché globale e a matrice.
C’è un elemento importante che accomuna queste due facce di una stessa medaglia, questi due mondi altrimenti apparentemente destinati a non incontrarsi mai: la necessità di riconoscere, avvalersi e sviluppare la managerialità globale.
La crisi mondiale del 2008, che come Italia ci vede ancora coinvolti in termini di perdita di competitività delle nostre aziende, ha avuto tra i suoi effetti un impatto pericoloso nel restringere gli orizzonti di molte imprese e professionisti all’ambito tattico, al correre sul quotidiano. Assolutamente comprensibile: solo pochi coraggiosi o innovativi potevano (possono?) permettersi un pensiero strategico quando la visibilità sul futuro era molto limitata. Cominciamo ad avere la certezza di essere ancora qui tutti il mese prossimo, tra due anni si vedrà.
Nella prospettiva tattica si lavora con quello che si ha a disposizione, ogni iniziativa di sviluppo della propria struttura o delle proprie risorse è un nice to have, e tendenzialmente è meglio che abbia un ROI quanto più possibile immediato e traducibile in un incremento del fatturato. Cosa c’è dietro ai numeri è rilevante fino a un certo punto, la priorità è sopravvivere come azienda.
Eppure… eppure nel frattempo qualcosa è cambiato. La globalizzazione, nella sua standardizzazione rassicurante e livellante, è diventata internazionalizzazione: nuovi Paesi sono emersi come attori principali sulla scena del business, rivendicando però tutta la loro specificità; sempre più spesso le aziende devono gestire più countries simultaneamente, lavorare con team internazionali, o aprire filiali o stabilimenti in nuovi mercati. Sempre più spesso fenomeni di acquisizione o di Joint Venture ci espongono a modalità di lavoro inedite, che richiedono capacità di adattamento, di lettura della situazione, ma anche una diversa consapevolezza delle diversità che sono in gioco. Il “villaggio globale” è diventata una metropoli cosmopolita dall’urbanistica impazzita, che rende difficile orientarsi.
Ci troviamo quindi a lavorare con il Marocco, e a sentirci incredibilmente frustrati perché pianificare una riunione da qui a 2 mesi sembra più complicato che irrigare il Sahara.
Dobbiamo presentare un nuovo progetto ai nostri partner giapponesi, ma dopo una preparazione maniacale e un volo intercontinentale, una volta lì scopriamo che la decisione sembra in qualche modo essere già stata presa.
Premiamo un collaboratore messicano per le sue performance organizzando un aperitivo di celebrazione davanti a tutto il team, convinti di aver fatto un grosso passo nel trattenere una risorsa di talento…e lo vediamo a disagio come se lo avessimo offeso.
Dobbiamo gestire il team di accounting in Svezia, con la necessità di un controllo molto preciso sul processo e sulle scadenze e….beh, il più delle volte ci sembra un’autogestione!
Quando poi il manager opera sulla base di Region (EMEA, APAC, LATAM e simili) o su più Countries, la situazione si fa ulteriormente complessa: se avete avuto esperienze come coordinare (dall’Italia) la logistica in Polonia con l’ufficio commerciale in Belgio e a Singapore; allineare la produzione in India con il team di sviluppo prodotto in Germania; o lavorare con le divisioni in Spagna e Francia sotto il coordinamento dell’HQ Olandese, sapete come le incomprensioni siano all’ordine del giorno, e che molte volte si ha la sensazione di procedere per tentativi ed errori e di non avere nessun controllo sul risultato finale.
Un’organizzazione globale è invece quella che attinge al suo patrimonio di diversità e la trasforma in risorsa. Che condivide strutture e processi interni, ma non ingabbia le sue consociate calando dall’alto un unico modo di lavorare…per poi scuotere il capo sconsolati quando i colleghi a Singapore hanno difficoltà a lavorare secondo il Management by Objectives!
Per operare questa conversione da diversità ad asset, i manager devono sviluppare la capacità di gestire il business e soprattutto le persone ad un livello globale, comprendendo le differenze e sapendo quando sfruttarle al meglio a seconda dell’obiettivo. La capacità del nuovo manager globale non è più solo nel sapere come lavorare al meglio in Cina, India o Emirati Arabi, ma nel gestire in maniera efficace la struttura e le risorse su tutti questi Paesi e anche di più. Questo vuol dire non solo interfacciarsi efficacemente con più Paesi alla volta, ma far sì che le persone basate in tali Paesi interagiscano tra loro in modo altrettanto efficace. Vuol dire governare il delicato equilibrio tra le forze centrifughe legate ad un DNA aziendale che va condiviso nelle sue logiche e best practice, e le forze centripete legate alle specificità e autonomie locali. E questo “bipolarismo” accomuna ormai sia contesti multinazionali che imprenditoriali.
Per agire in questo senso non è necessario essere Superman: un buon punto di partenza è sviluppare una consapevolezza culturale a 360° per poter interpretare e adattare le proprie azioni e capacità gestionali non solo al singolo Paese, ma agli obiettivi e alle diversità che il manager si trova davanti in quel momento. Solo in questo modo potrà portare dei risultati alla sua azienda, generare soddisfazione nei suoi clienti, mantenere la motivazione dei suoi riporti, negoziare efficacemente con i suoi fornitori e crescere sempre di più personalmente e professionalmente.
Un “modello quadro” di questo tipo, che offre una chiave di lettura così completa esiste, ed è il modello di Hofstede: nel corso di più di 40 anni di ricerca, l’antropologo olandese Geert Hofstede, considerato dal Wall Street Journal uno dei più influenti pensatori manageriali del mondo, ha sviluppato un modello di analisi culturale comparativa basato su 6 dimensioni, che da 30 anni viene applicato con successo anche all’efficacia aziendale.
La dimensione culturale rappresenta un aspetto del business fino ad ora estremamente sottovalutato, o addirittura considerato poco inerente al mondo aziendale. In realtà è un motore potente e un differenziale competitivo importantissimo in un mondo dove, per avere successo su mercati saturi o molto aggressivi, la buona volontà o l’approccio “copia e incolla” (come faccio in Italia faccio altrove) non bastano più, o limitano di molto i risultati che sarebbe possibile ottenere. È prevalso fino ad ora un approccio da “turista del business” che non è più attuale ed efficace per essere competitivi nel mercato attuale.
La nuova dimensione internazionale delle aziende sta valicando i confini dei settori merceologici, delle dimensioni, del modello gestionale che le caratterizza, e porta con sé un’incredibile opportunità di consolidare o sviluppare il successo delle imprese di qualsiasi tipo: quello di identificare o formare dei manager globali, in grado di ottenere performance efficaci ad ampio raggio, creando identità organizzative coese che superino i confini geografici, ma che valorizzino le differenze culturali.
Alessia Di Iacovo – Managing Partner di AdiValue
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La sua esperienza è focalizzata nel campo del recruiting e dell'outplacement. Tra gli obiettivi della sua società, fornire supporto alle aziende e ai professional nell'identificare nuovi asset che siano distintivi nello scenario internazionale.