Povera e nuda vai, formazione? Povera, non proprio, vista la mole di risorse che sono messe in campo, stimate in almeno tre miliardi; nuda, perché manca ancora una visione e una strategia e, soprattutto, perché a farne di meno sono proprio le imprese che ne avrebbero più bisogno. In Italia quasi tre imprese su quattro non fanno formazione ai propri dipendenti. L’alibi della crisi non regge. Le imprese che fanno formazione sono il 28,1% (dato 2012); nell’industria solo una su quattro (25,4% industria in senso stretto), il doppio nelle public utilities (48,1% nell’energia, gas, acqua, ambiente), il 28,5% nelle costruzioni, dove emerge il tema sicurezza; la stessa quota nei servizi. Le imprese che mostrano le maggiori difficoltà sono le micro e le piccole, mentre le imprese che nel corso del 2012 hanno maggiormente sviluppato formazione sono quelle di maggiori dimensioni, nella fascia 250-499 dipendenti e oltre i 500. La crisi ha visto ridursi l’attività formativa nelle imprese. Resta uno zoccolo duro a cui le aziende non possono rinunciare se non vogliono scomparire. Nel 2011 la quota di chi aveva svolto attività formativa è stata del 34,5%, nel 2012 è scesa al 28,1%; nel 2010 era del 33,5%. Sotto il 30% siamo andati nel 2009, quando solo il 25,1% di imprese aveva investito in formazione. Insomma, il matrimonio tra aziende e formazione non si è mai fatto, segno che il nostro sistema industriale e produttivo è ancora affetto da una forte debolezza. Del resto anche nella formazione degli adulti tout court siamo indietro. Il benchmark europeo sui partecipanti tra 25 e 64 anni a iniziative di formazione e/o istruzione, pur a fronte di aumenti relativi, ci vede agli ultimi posti (6,6%), contro l’8% della Germania, il 16% del Regno unito, il 27% della Svezia e il 32% della Danimarca.
Tutti sanno che la ripresa dell’economia poggia sulla riforma del lavoro e della formazione aziendale e professionale, che va potenziata. Serve una legge che renda obbligatoria una quota di formazione, come avviene nel caso della sicurezza e dei professionisti; favorire il credito; alzare la qualità dell’offerta formativa; riformare il sistema dei fondi interprofessionali e dell’accreditamento regionale delle strutture formative. Sono queste le proposte per una buona formazione. Nel settore operano 35 mila soggetti (di cui 7mila accreditati presso le regioni), con un giro d’affari annuo di 3 miliardi di euro e 600 mila occupati (diretti e indiretti). Cinquecento milioni sono attribuibili al settore privato e 2.500 al settore pubblico (800 milioni ai fondi interprofessionali, il resto da Unione europea, ministero del Lavoro e regioni). Le proposte non mancano. La formazione come leva delle nuove politiche attive del lavoro aiuterà a ridurre la disoccupazione?
– Walter Passerini –