ESERCIZIO DELLA LEADERSHIP E POTERE DIRETTIVO
Nell’attuale scenario economico si sta facendo strada la consapevolezza che il valore di un’azienda risulta sempre più legato alla valorizzazione del fattore umano. In tale prospettiva è evidente che le aziende non possano limitarsi ad avere ottimi manager ma hanno soprattutto bisogno di leader.
Persone cioè che non sappiano semplicemente organizzare, dirigere, controllare, magari ottenendo anche apprezzabili risultati sul piano dei numeri. Oggi quello che si richiede al “capo” è di far crescere le persone, ispirarne la motivazione, aumentarne il senso di appartenenza, creare lo spirito di squadra, facendo in modo che ciascuno, valorizzato nella sua specificità, dia il meglio di sé. In sintesi, il capo deve essere autorevole e non autoritario.
Queste considerazioni hanno anche un rilevante impatto sul versante giuridico.
Se il dirigente si caratterizza per l’ampiezza del potere direttivo e per la capacità di incidere sugli obiettivi aziendali, non vi è dubbio che per un’azienda che vede il nesso tra il raggiungimento degli obiettivi e l’esercizio della leadership, gli aspetti che si sono sopra sinteticamente riportati saranno certamente valorizzati nei processi di valutazione del dirigente, costituendone (accanto ovviamente ai risultati economici) il parametro per l’erogazione di aumenti o di bonus.
In ogni caso, è evidente che l’esercizio del potere direttivo, per quanto ampio, incontri dei limiti ulteriori rispetto al perimetro dell’incarico affidato al dirigente. Essi sono costituiti in particolare, dalla professionalità, immagine, dignità e salute dei collaboratori tutelati dagli artt. 2103 c.c. e 2087 c.c., oltre che dalle norme dello Statuto dei Lavoratori e del codice della privacy.
Ebbene, è chiaro che l’esercizio del potere direttivo, che pure è richiesto al dirigente, con stile autoritario, autoreferenziale, financo prevaricatore, pone rilevanti problemi di violazione delle citate norme, esponendo l’azienda a conseguenze di non poco conto.
Anzitutto, nelle ipotesi più gravi il datore di lavoro potrebbe essere oggetto di denunce/esposti anche all’autorità giudiziaria. In ogni caso, l’azienda è esposta a richieste di risarcimento del danno per demansionamento, mobbing, discriminazioni o violazioni della privacy.
Non vi è però solo il problema delle cause intentate dai sottoposti del manager. L’esercizio scorretto del potere direttivo conduce inevitabilmente a un clima aziendale che comporta normalmente la perdita delle risorse (unitamente al know how da queste portato) che hanno più mercato, ossia le più valide, a seguito di dimissioni (non necessariamente per giusta causa). Inoltre, questi fatti influenzano anche la reputazione aziendale determinandone un detrimento sia nella percezione dei collaboratori sia all’esterno (anche grazie alla “voce” di chi è uscito), soprattutto se i vertici aziendali (se non addirittura la proprietà) dovessero sottovalutare questi aspetti, magari abbagliati da risultati economici di rilievo.
Un’azienda con capacità di visione non potrà non rendersi conto che, sul lungo periodo, un clima aziendale inadeguato incapace di attrarre e/o trattenere le proprie risorse migliori, impatterà anche sui risultati economici.
Nei casi di uso scorretto o improprio del potere direttivo l’azienda ha diversi strumenti per tutelarsi.
Non vi è dubbio che, nei casi più gravi, l’azienda abbia il diritto (se non addirittura anche il dovere in virtù dell’obbligo di tutelare la salute dei propri dipendenti ex art. 2087 c.c.) di procedere con il licenziamento per giusta causa, avviando eventualmente anche azioni risarcitorie nei confronti del dirigente.
Più difficili da gestire sono quelle ipotesi di manager particolarmente performanti e tuttavia del tutto incapaci di stabilire rapporti di collaborazione corretti sia con i colleghi sia con i propri sottoposti, provocando così tensioni, malumori e fratture tra le persone.
Ove forme di moral suasion da parte dei vertici non sortiscano gli effetti desiderati, nell’attuale assetto normativo questi fatti, anche se più sfumati, sono certamente idonei a ledere il rapporto fiduciario con il manager, a maggior ragione se il dirigente occupi una posizione elevata nella gerarchia aziendale o addirittura si collochi al vertice della stessa. La giurisprudenza ormai ammette come giustificazione del licenziamento del dirigente qualsiasi motivo non pretestuoso fondato su fatti idonei a turbare il legame di fiducia con il datore di lavoro.
È bene, comunque, osservare che si tratta pur sempre di licenziamenti che esigono un’istruttoria complessa e approfondita per descrivere compiutamente i comportamenti censurabili, in modo da evitare che le contestazioni, su cui poi si fonda il licenziamento, siano formulate in modo generico, esponendo così il datore di lavoro al possibile costo derivante dalla condanna al pagamento dell’indennità prevista per il licenziamento ingiustificato (c.d. indennità supplementare).
Un elemento facilitatore per attribuire rilevanza a tali comportamenti ai fini del licenziamento è certamente l’esistenza di regolamenti o policy aziendali nelle quali siano chiariti i principi etici che ispirano l’azienda e ai quali l’azienda intende attenersi.
In tali casi, l’evidenziazione dello scostamento dei comportamenti contestati dai principi etici aziendali potrebbe anche giustificare il licenziamento anche di manager non dirigenti (quadri direttivi), per i quali come è noto nelle aziende con più di 15 dipendenti ancora oggi esiste la possibilità della reintegra.
L'avv. Francesco Tanca è iscritto all’albo degli avvocati di Milano dal gennaio 2000 ed è abilitato alle giurisdizioni superiori dal 2013. Nell’ottobre 2005 costituisce con l’avv. Mattia Lettieri lo Studio Lettieri&Tanca, boutique specializzata in diritto del lavoro.