DA PERFORMANCE MANAGEMENT A PERFORMANCE ACHIEVEMENT
Molti autori di libri sul management sostengono che un buon sistema di performance management debba avere determinate caratteristiche, sinteticamente riassumibili nelle seguenti affermazioni:
– ci deve essere un obiettivo motivante per l’individuo (ovvero desiderabile), ma non troppo facilmente raggiungibile
– ci deve essere un capo che pre-definisca in modo chiaro sia il risultato atteso che le ricadute positive o negative (premi o punizioni)
– lo stesso capo deve supportare il collaboratore nel raggiungimento dell’obiettivo
– ci deve essere una valutazione oggettiva ed un giudizio equo sull’operato del collaboratore
– il tutto deve essere inserito in un solido processo organizzativo che permetta di reiterare nel tempo il meccanismo di miglioramento non solo della prestazione individuale ma anche dell’intera organizzazione, nonché di sviluppare l’individuo mediante l’emersione di fabbisogni formativi da colmare e prendere decisioni coerenti sulle politiche retributive.
Ora, immaginiamo di osservare un neonato in culla che si sforza di afferrare una giostrina acchiappasogni appesa sopra di lui, colorata e profumata, con sua madre intenta a spronarlo ed incoraggiarlo nel suo tentativo.
Di fatto già in questa semplice situazione siamo in presenza di:
– un obiettivo (la giostrina), colorato e profumato, in altri termini desiderabile, motivante;
– un adulto il cui ruolo, oltre ad aver posto l’obiettivo, è quello di incoraggiare, spronare e dare valore all’azione (la madre);
– una difficoltà intrinseca nel raggiungere l’obiettivo;
– una implicita promessa che l’indomani ci sarà stato ancora qualcosa di desiderabile da raggiungere;
– delle capacità da sviluppare per poter raggiungere l’obiettivo.
Tutti elementi che, paradossalmente, definiscono un sistema di performance management “sfidante” già in culla!
Proseguendo nella crescita il bambino probabilmente conoscerà la competizione sportiva (vittoria o sconfitta), spesso goffamente mascherata dietro il motto “l’importante è partecipare”, e poi le misteriose parole pagella, scrutinio, quadrimestre, giudizio sintetico che nasconderanno agli inesperti occhi di fanciullo concetti da mondo adulto quali: strumento di valutazione/appraisal form (pagella), processo di valutazione (scrutinio), tempi della valutazione (quadrimestre) e risultato della valutazione (giudizio sintetico). Solo la ricaduta, sia essa un premio (non dovrà studiare troppo durante l’estate) o una punizione (la bocciatura) saranno con ogni probabilità sufficientemente auto-evidenti da non generare senso di smarrimento nel giovane.
Quindi, dati questi presupposti, ci si immagina che il ragazzo, fattosi adulto, si affaccerà al mondo del lavoro già con una buna esperienza in tema di performance management, avendolo di fatto già provato sulla propria pelle a lungo, e di conseguenza pronto a coglierne gli indubbi aspetti motivanti.
Ma, molto probabilmente accadrà che, non avendo dimestichezza con i codici di comunicazione delle organizzazioni, al primo colloquio con il suo primo capo, che in ottemperanza alle policies interne sul performance management vorrà discutere il cd. performance appraisal, si lascerà sfuggire un: “ …ah, la pagella…”, rovinando in meno di 3 minuti il suo primo colloquio di valutazione.
Pare evidente, da questa mia digressione sui percorsi educativi più o meno comuni a tutti, che sin dai primi anni di vita, almeno nell’occidente industrializzato degli ultimi 50 anni, ogni individuo viene a contatto con processi che, implicitamente, hanno le caratteristiche di un classico sistema di performance management.
Ma allora perché, nonostante la presunta “dimestichezza” di ogni individuo con il tema, nelle organizzazioni troppo spesso questi sistemi falliscono nel loro principale obiettivo, che è quello di orientare i comportamenti degli individui verso il raggiungimento di performance più elevate?
Non esiste una risposta definitiva a questa domanda, ma ho personalmente osservato, negli ultimi 20 anni di analisi delle organizzazioni, i seguenti tratti comuni nei sistemi di performance management che falliscono nel loro intento:
– il processo di performance management è generalmente fisso e piuttosto gravoso (schede e moduli da compilare entro una certa data);
– è solitamente annuale e unidirezionale (si pensi al “classico” colloquio di fine anno in cui il tempo è poco, le cose da dire molte e, come ovvia conseguenza, l’ascolto reciproco è ridotto al minimo);
– gli obiettivi sono statici e rivisti solo a fine periodo di osservazione;
– generalmente la valutazione è fortemente discrezionale e risente della soggettività del valutatore;
– il focus è solo sulla scheda di valutazione.
Quindi, l’antidoto al fallimento sembrerebbe essere la capacità di progettare un sistema che:
a) sia flessibile e semplice,
b) sia parte di un processo continuo, o che almeno preveda una buona frequenza di incontro capo-collaboratore, e che sia il più possibile bidirezionale,
c) fornisca la possibilità di verificare in corso d’anno il grado di raggiungimento degli obiettivi,
d)sia ancorato ad un solido modello di competenze, con una valutazione a 360° di queste, riducendo il grado di discrezionalità nella valutazione,
e) sia focalizzato sullo sviluppo dell’individuo.
L’adozione dei suddetti accorgimenti, sperimentata già in alcune organizzazioni virtuose, ci suggerisce un passaggio logico fondamentale: dal performance management al performance achievement.
Se si pensa (fonte: Accenture, 2017) che le persone raggiungono il risultato organizzativo richiesto quando:
1) Pensano di poter dare il meglio di sé nel lavoro che svolgono,
2) Si focalizzano sulle proprie priorità “vitali” (da 3 a 5 cose),
3) C’è engagement nel team di lavoro, in particolare c’è alta fiducia reciproca,
4) Discutono il feedback con il loro capo sul momento,
5) L’organizzazione assume azioni di crescita e di miglioramento individuali (formazione, job enrichment, etc.),
allora sarà più facile ripensare un processo più snello, semplice, continuo e focalizzato sul raggiungimento del risultato di sviluppo individuale ed organizzativo che ci si propone, piuttosto che sulla valutazione in sé.
Potremo, forse, mandare in pensione la vecchia scheda di valutazione e dotarci di strumenti più agili di performance achievement, come ad esempio la condivisione in logica social degli obiettivi di sviluppo individuale (da 3 a massimo 5) all’interno delle organizzazioni. E, probabilmente, anche le scelte di politica retributiva conseguenti sembreranno, agli occhi delle persone, maggiormente collegate ai concetti di merito e risultati raggiunti.
Da oltre 15 anni lavora come consulente in area HR, con particolare focus su Comp& Ben, Performance Management, OrganizationalDesign. Affianca l’attività di consulenza a quella di Vice President con deleghe operative per un’importante realtà industriale della bergamasca.