L’invecchiamento attivo è un tema di grande importanza e attualità. L’innalzamento dell’età media della popolazione e il contemporaneo abbassamento della natalità stanno cambiando la composizione sociale dell’Italia così come l’abbiamo conosciuta finora.
Proprio per la sua incisività e la sua profondità, questa trasformazione (individuale e al tempo stesso collettiva) richiede azioni e programmi estesi in ambito lavorativo, che intervengano in situazioni diversificate e complementari, in maniera allargata e coordinata, interessando, più precisamente, tre ambiti specifici:
1) il rapporto tra età di lavoro e quella in cui si fuoriesce dal sistema produttivo;
2) le scelte che le organizzazioni operano nei confronti delle risorse umane per la qualificazione e riqualificazione professionale;
3) le politiche del mercato del lavoro e della formazione professionale.
L’approccio più indicato per affrontare questi tre contesti è quello unitario, ovvero il cosiddetto comprehensive approach, che tratta ogni aspetto in maniera specifica, ma come tassello di un unico puzzle il cui disegno effettivo risulta soltanto dall’insieme delle parti. È indispensabile ricordare che le organizzazioni hanno una responsabilità diretta. È arrivato il momento di voltare pagina e cambiare completamente approccio alla questione.
Da dove partire?
Per esempio iniziando a ragionare sulla fatica. Certamente va ridotta al crescere dell’età. La vera sfida è trovare una nuova dimensione di flessibilità generale, interna alle aziende, lavorando su elementi strutturali a cominciare dall’orario di lavoro. Facilitare la mobilità interna basandosi su un orario flessibile è decisivo. Lo stesso si potrebbe fare intervenendo sulla possibilità di variare le mansioni assegnate, un tema delicato, che riguarda l’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, sotto la lente, in questi mesi, da parte di chi sta delineando il percorso di riforma della Legge delega per il cosiddetto Jobs Act, e che vede una singolare unanimità d’intenti rispetto alla necessità di apportare modifiche.
Il secondo aspetto, dopo la flessibilità interna, è il clima di partecipazione e condivisione delle scelte organizzative. Un buon clima può aiutare moltissimo la definizione e la messa in opera di politiche di valorizzazione delle figure più anziane in azienda. Al contrario forzare le condizioni di lavoro con la scusante che “è cambiato il mondo” non porta molto lontano. È meglio prendere le persone per mano, cercando di cambiarle. Per questo servono progetti di medio e lungo periodo, personalizzati o affrontati all’interno di piccoli gruppi.
Per chi ha maturato un’elevata anzianità professionale conta moltissimo, poi, la pianificazione del percorso di fuoriuscita dal sistema d’impresa. Il vero nodo è legato all’impossibilità di effettuare scelte flessibili e al tempo stesso sicure per “ammorbidire” il passaggio verso la quiescenza. Sarebbe utile disporre di un periodo di alcuni anni in cui effettuare in maniera consapevole un’eventuale riduzione del monte ore di lavoro o in cui decidere quando lasciare il proprio lavoro. In queste condizioni, a seconda delle situazioni personali, ciascuno potrebbe davvero pianificare un graduale avvicinamento alla pensione, migliorando, per altro, la qualità della propria vita in azienda se non addirittura il livello di produttività. Questa ipotesi – sulla quale sta lavorando il ministro del lavoro Giuliano Poletti – riuscirebbe, tuttavia, soltanto ad attutire l’impatto del “fine corsa” su un lavoratore, ma non eliminerebbe la necessità, per le imprese, di pianificare, con un dovuto anticipo, interventi di active ageing.
Tra le iniziative necessarie per affrontare il problema vi sono anche le decisioni che riguardano le politiche retributive e le forme complessive con cui viene premiato il lavoro. Le politiche di compensation sono sempre state centrate sull’anzianità. I premi di produzione, come gli incentivi e i benefit, dovrebbero invece essere correlati alle diverse qualità del lavoratore e alle situazioni personali. Uno stipendio ben costruito dovrebbe stimolare, ai fini del miglioramento dell’intero sistema organizzativo e produttivo, il contributo di ciascuno secondo le migliori potenzialità che è in grado di esprimere. La politica di ricompensa dovrebbe intervenire là dove c’è una differenza, per valorizzarla.
A proposito di valore individuale è noto inoltre come siano apprezzate caratteristiche personali come la maturità professionale, la capacità di giudizio e di problem solving, le competenze trasversali, individuali e sociali: proprietà solitamente potenziate dall’esperienza. In realtà è dimostrato che il tasso di occupazione dei lavoratori maturi è correlato in senso positivo anche alla sua istruzione, non soltanto all’esperienza. Per questa ragione vi è un ultimo elemento che vale la pena di rimettere al centro, pensando a quali percorsi favorire per migliorare l’invecchiamento attivo: la formazione. Da un lato (aziendale) ne rinforza la capacità produttiva del lavoratore e dall’altro (individuale) ne migliora l’employability, la mobilità sul mercato, favorendo anche la crescita del potere d’offerta sulla domanda di figure qualificate.
Purtroppo l’Italia non eccelle nella formazione continua, con una significativa scarsità di figure formate su materie tecnico-scientifiche. E anche quando i lavoratori entrano in azienda non viene fatta molta “manutenzione”: le persone in formazione continua sono meno del 7% del totale. Chi ha affrontato la problematica dell’active ageing sa, però, che la “manutenzione straordinaria” delle conoscenze e delle competenze professionali è un passaggio obbligato. Una volta il traguardo dei 45 anni era un punto critico che avviava il lavoratore verso il fine carriera, ponendolo quasi “in discesa”. Oggi è un giro di boa che traccia la metà del percorso, si entra di fatto in una seconda vita lavorativa. Non è soltanto un mutamento organizzativo, ma anche di carriera. Per questa ragione avrebbe senso proporre percorsi di avanzamento di tipo orizzontale e non soltanto verticale (dove i posti disponibili si esauriscono in fretta e sono sempre più ambiti anche dai giovani). Lo spostamento orizzontale offre notevoli gratificazioni, soprattutto a chi ha maturato forte radicamento in uno stesso contesto produttivo per anni.
In sintesi, i punti chiave su cui agire – in via preliminare – sono la flessibilità della partecipazione al lavoro, tramite una rimodulazione degli orari e delle mansioni, l’approccio più morbido nei confronti di quella che oggi è una finestra rigida verso il pensionamento, la valorizzazione delle competenze attraverso politiche retributive personalizzate e una considerazione costante dei livelli di competenza e conoscenza, da migliorare attraverso la formazione continua.
Non sono ricette impossibili, tanto più che un’azienda non deve fare tutto subito. Può perseguire obiettivi parziali con interventi progressivi a seconda delle condizioni del lavoratore e dell’impresa stessa. L’importante è che abbia predefinito un disegno complessivo da realizzare nel medio periodo in sinergia con la direzione d’impresa.
Tiziano Treu – già Senatore della Repubblica e Ministro del Lavoro